PHANTOM ANTICHRIST
KREATOR [THRASH METAL], 2012
Le premesse sono state pienamente mantenute: nessuno si aspettava un flop, nessuno dubitava del fatto che Phantom Antichrist, nuova miccia dei teutonici Kreator, sarebbe stato un disco dagli attributi colossali. Accostare un prodotto recente ai grandi masterpieces che hanno fatto la storia del genere è sempre indelicato e complesso, ma dire che questo full length rappresenta un episodio tra i migliori della ricca carriera dell’ensamble mitteleuropeo non ci sembra eccessivo: le credenziali per essere il disco thrash dell’anno ci sono, e non sono poche. Sulla scia di tre dischi incisivi e capaci di rispolverare le antiche vestigia [dopo le vacche magre dei Nineties], la milizia di Mille Petrozza e dell’inscalfibile Jürgen 'Ventor' Reil dimostra di non aver perso neppure un decimo della propria foga, seppellendo le giovani leve sotto una sonora lezione di storia, che non si limita alla teoria ma si impernia sulla pratica, sanguinosissima pratica; sanno ancora fare del male, questi signori oltre “gli anta”, e per abbattere i propri ostacoli utilizzano le armi di sempre: potenza e velocità, riff devastanti, letali come lame di una falce, testi impregnati di furore, disgusto sociale, critica politica. Non crediate però che i Kreator restino incancreniti su uno standard vincente ma fossilizzato nel tempo: come promesso dal carismatico leader italo-tedesco, infatti, i panzer passati alla leggenda con Pleasure to Kill introducono cospicui riferimenti alle proprie radici classic heavy, tangibili nelle mirabolanti fughe soliste di ispirazione priestiana e maideniana. Il tutto, ovviamente, riletto con l’ottica irruente tipica dell’act tedesco: la scaletta, come vedremo, sarà costituita da una serie rassicurante di macelli spietati [la titletrack, Death to the World, Civilisation Collapse, United in Hate, Victory Will Come], verrà articolata attraverso alcuni passaggi meno tirati e di classica derivazione heavy [From Flood Into Fire, The Few, the Proud, the Broken, in un certo senso Your Heaven, My Hell] e si concluderà con un assaggio di prestanza più monolitica. Le performances dei singoli elementi risulteranno a dir poco strepitose, ma una menzione particolare la meritano i due highlanders, Mille e Jürgen, ancora una volta autentici trascinatori della corazzata continentale, probabilmente la più in forma tra le band appartenenti alla vecchia guardia del movimento metal mondiale: su questo non si discute. L’album è aperto dalla strumentale Mars Mantra, un’intro sinistra che lascia crescere la tensione e funge da preludio per la titletrack Phantom Antichrist, un olocausto ritmico immediato e annichilente nel quale Reil subito sferra raffiche di doppia cassa spietate su riff innervati di veleno; un refrain semplice e tradizionale, ma sicuramente trascinante, anticipa un’accelerazione ancora più veemente del pezzo, portando il delirio ai massimi livelli: il brano, velocissimo e forsennato, scatena inevitabilmente l’headbanging e si rivela una delle migliori composizioni della band da vent’anni a questa parte, ma presenta anche interessanti varianti all’interno dei suoi quattro minuti e mezzo di durata. Un pesante rallentamento centrale, infatti, è incalzato da una nuova linea vocale e ritmica, tese a costituire un intermezzo prima che la canzone ritorni al vibrante canovaccio-guida, sfociando in seguito nel primo assolo lancinante del platter: emergono immediatamente le spruzzate di heavy che rivestono le brillanti fiammate soliste, e nel frattempo Petrozza si rende subito protagonista di una prestazione brillante, tanto chirurgico alla chitarra quanto rabbioso al microfono. Per quanto stupefacente, la titletrack è comunque una sorpresa relativa, in quanto avevamo potuto saggiarne la pericolosità già qualche settimana prima della pubblicazione del disco, anche grazie alla sua presenza sull’omonimo EP. Il primo grande tuffo al cuore giunge dunque in concomitanza di Death to the World, altra traccia strepitosa, gigantesca, una mazzata devastante al cospetto della quale è umanamente impossibile restare fermi. Gli elementi che ogni affamato di thrash può desiderare ci sono, e in abbondanza: riff nervosissimi, martellante esplosione ritmica, vocals serrate che convergono in un ritornello da pogo disinibito, sorretto da velocità scarnificanti, possenti rallentamenti che fomentano la tensione ed una sezione centrale più quieta, tesa a creare un’ambientazione febbricitante; a questo punto, un assolo velocissimo ed ultra-heavy conferisce il colpo di grazia a chi ancora non si era bagnato, lasciando che i pugni dei fanatici tornino ad ondeggiare al cielo, con un chorus urlato a squarciagola, irresistibile, e la consapevolezza di aver sbattuto la testa contro un altro papabile classico, superbamente all’altezza della discografia storica di questo moniker. Dopo questa seconda, consecutiva bordata -lancinante e rapidissima- possiamo riassaggiare le sane radici heavy dei quattro tedeschi, gustandoci il riff solenne e marziale di From Flood Into Fire, un roccioso mid-tempo che poggia le basi su un atipico refrain corale da pelle d’oca, fortemente anthemico: i Kreator tritaossa li conoscevamo tutti, ma questa loro faccia epica e tradizionale ci mancava. Il risultato è comunque travolgente, e la rapidità non viene certo a mancare dato che dopo due minuti e mezzo si viene sorpresi da un’improvvisa ripartenza da capogiro, scandita da un assolo tonante che rilancia e velocizza il brano; la struttura non lineare scelta dai warriors di Essen produce composizioni mai banali e perennemente provviste di sfumature a sé stanti, che in questo caso coincidono con una decadente sezione dai tratti gotici e decadenti, prima accarezzata da un suadente solo malinconico e poi infiammata da un seconda vampata di note, questa decisamente più violenta ed elettrizzante. Si giunge così alla metà della tracklist: se From Flood Into Fire è stata una sorta di stacco, con tanto di omaggio all’heavy classico, Civilisation Collapse rappresenta, al pari di Death to the World, la bordata più massacrante e fulminante nell’esecuzione, un’altra scheggia letale. L’avvio è tambureggiante ma abbastanza contenuto: dopo un minuto circa, però, una pioggia di riff imbizzarriti si scaglia sull’ascoltatore come una spietata raffica di inaudita violenza, incontenibile e travolgente; un nuovo refrain, crudele ma irrefrenabile, accende ulteriormente la fiamma della follia, mentre Ventor sorregge con velocità impetuosa e glaciale costanza le trame di Mille e Sami Yli-Sirniö, brutali ma al contempo precise e raffinate. Stupendo, ancora una volta, l’assolo di chitarra: impellente, fluido, tagliente ed esaltante nel suo taglio old school, uno dei migliori presenti sul disco. L’intro acustica di United in Hate fornisce una sensazione di calma parziale e surreale, ma è solo un breve esercizio di pietà: un vigoroso assolo di batteria ed un urlo sguaiato di Petrozza lanciano l’ennesima sfuriata col piede a tavoletta sull’acceleratore, tra vocals efferate e rasoiate prepotenti, continui assoli perforanti ed energia che cola come lava dalle casse dello stereo; The Few, the Proud, the Broken è invece la seconda parziale variante ritmica rispetto alle consuete mitragliate da knockout: dotata di notevole potenza, punta su un refrain atipico ed un mood meno serrato, possiede riff classici innervati di discreta melodia e si presenta in ogni caso granitica e piacevole, ancora una volta impreziosita da svariati guitar solos. La presenza di queste tracce “diverse” contribuisce a stratificare l’album e conferirgli varietà, anche se le ultime tre composizioni appariranno leggermente meno ispirate di quelle presenti nella prima, ampia porzione di disco. Your Heaven, My Hell mescola entrambe le facce del sound dei Kreator datati 2012, ma risulta a tratti eccessivamente prolissa: si avvia con riff statuari e rallenta in un toccante arpeggio acustico, su cui Mille canta con voce cupa e pulita, riportando alla mente qualcosa udita nel periodo di Endorama. Niente paura, dopo due minuti il pezzo sprigiona tutta la sua reale forza d’urto, delineandosi come un possente esercizio di thrash dal riffato ipnotico, forse non velocissimo come i tedeschi saprebbero fare ma in ogni caso arrembante. Il ritornello, cantato precedentemente con toni sommessi e puliti nella fase d’avvio, viene qui ripetuto con tono decisamente più abrasivo, parecchie volte; la sezione solista non smette di convincere, avvolgente e dinamica, mentre è ancora il drummer a rendersi protagonista con un finale scrosciante e tellurico. Superati questi due passaggi meno selvaggi, si torna alla consueta barbarie ritmica con Victory Will Come, scandita dagli immancabili riff a rincorsa e dal tupa-tupa compatto e quadrato di Ventor; un buon pezzo, pur se non ancora dirompente e shockante come le tracce precedentemente esaminate, che comunque rasentano l’eccellenza. La conclusiva Until Our Paths Cross Again esibisce un altro avvio melodico e circospetto, si delinea come mid-tempo strascicato e opprimente ed è scandita da linee vocali autoritarie e svilenti; la velocità compare soltanto in folate concise, lasciando più spazio ad una sensazione di claustrofobia e concedendosi soltanto nella digressione centrale, peraltro infervorata da un assolo epilettico. Fin dal primissimo ascolto, la sensazione è chiaramente positiva: il disco girerà continuamente e per parecchio tempo nei vostri lettori, ed ogni volta vi ritroverete a dimenarvi come dei pazzi, sconvolti e travolti dall’ennesimo rituale di violenza imbastito dai Maestri. Chi osa chiamarli nonnetti potrebbe pentirsene.

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