POWERSLAVE: I TESTI
RINO GISSI, METALLIZED.IT
Dopo essersi consacrati agli apici del movimento metal internazionale, gli Iron Maiden superano anche se stessi confezionando un ulteriore gioiello di melodia e potenza, Powerslave, per molti uno dei loro prodotti migliori per l'efficacia delle trame, la maestosistà messa in musica, la fluidità dei fraseggi di chitarra e l'affascinante apporto visivo, da sempre peculiarità centrale nell'universo della Vergine di Ferro e qui sublimato in un sontuoso scenario egiziano, tra coloratissime piramidi, sfingi, geroglifici, sarcofagi e rappresentazioni esotiche di grande impatto; anche musicalmente e concettualmente si toccano altissimi vertici creativi, grazie a composizioni imponenti ed elaborate, melodie fantastiche e testi colti, intrisi di significati e riferimenti di ogni sorta, ma sopratutto ispirati da tematiche storiche. Si fanno sentire, e non poco, le ricche conoscenze culturali di Bruce Dickinson, unitamente a quelle di Steve Harris, che già dai primi album aveva messo l'accento sull'importanza di testi intelligenti e fuori dal comune, in un certo senso. La prestazione collettiva della band, esaltata dalla prova ridondante del singer e dalle melodie straripanti delle tre asce, trova dunque un coronamento importante e particolareggiato anche dal punto di vista tematico, come del resto era stato anche sui dischi precedenti e come sarà su quelli immediatamente successivi. La roboante e travolgente Aces High, che diverrà opener tradizionale dei live-shows della band, inaugura il disco col suo riffato mitragliante, le sue scorribande intricate ad alta velocità e il suo chorus enfatico: un pezzo particolarmente energico e dinamico, che narra di un pilota della Royal Air Force inglese, impegnato a lottare sui cieli britannici contro la Luftwaffe (aereonautica militare) tedesca durante la battaglia d'Inghilterra (luglio-ottobre 1940); celebre il discorso iniziale, tenuto da Winston Churchill in quei giorni drammatici. Il testo si presenta come una sorta di strategia di battaglia e punta l'obiettivo sulle difficoltà tattiche di un combattimento aereo, ma è anche un triste indicatore di come la guerra diventi la vita stessa dei ragazzi coinvolti: girare, avvitarsi, scendere in picchiata, ritornarci sopra, corri, vivi per volare, vola per vivere, fare o morire; corri, vivi per volare, vola per vivere, gli Assi volano, avviciniamoci per sparare al grosso dei bombardieri, una sventagliata secca e poi giriamo sul fianco, viriamo e prendiamoli da dietro, dove non ci possono vedere, facciamo fuoco di nuovo. La voce di Dickinson tocca vette strepitose ed irraggiungibili, ponendo immediatamente l'accento sulle qualità del singer almeno tanto quanto sul cristallino tepore della sezione solista, come sarà in tutto il platter. 2 Minutes To Midnight é indubbiamente uno dei pezzi più celebri del combo londinese, vocalmente trascinante, dotata di un riffery magistrale e di uno splendido assolo melodico; liricamente parla delle atrocità della guerra, del fascino e dell'orrore di essa, questi due aspetti combinati e il fatto che, purtroppo, ne siamo sia affascinati che disgustati, come affermato da Bruce Dickinson in persona; con una prestazione stellare, il singer si muove tra versi ispirati dall'orologio dell'apocalisse, uno strumento convenzionale attraverso cui gli scienziati del Bulletin Of The Atomic Scientist (università di Chicago) compararono la mezzanotte alla fine del mondo, simboleggiata dalla guerra atomica: le lancette venivano spostate avanti o indietro a seconda del periodo storico e degli eventi politici. La mezzanotte meno due minuti fu toccata soltanto nel 1953, quando l'URSS testò la prima bomba all'idrogeno. Il testo é critico e denigra l'incapacità umana di mantenere l'ordine e la pace sul pianeta, ma é anche uno dei più cruenti e brutali mai scritti dagli Iron Maiden: mentre i motivi per la carneficina tagliano la carne e leccano il sugo, oliamo le fauci della macchina da guerra e le diamo in pasto ai nostri piccoli; le bare e gli stracci dei bimbi tagliati in due e il cervello gelatinoso di quelli che rimangono ad additarti, mentre i pazzi giocano con le parole e ci fanno danzare al loro ritmo, al ritmo dei milioni che muoiono di fame per creare un tipo migliore di arma da fuoco; di nuovo in guerra, il sangue è la macchia della libertà; non pregare più per la mia anima, due minuti a mezzanotte, le lancette minacciono distruzione. La marziale titletrack Powerslave, intrigo di riff pesanti e melodie avvolgenti, aleggiante in un'atmosfera misteriosa e solenne, è ovviamente localizzata tra le piramidi dell'antico Egitto, sotto il caldo sole del Nilo, e narra di un Faraone morente, il quale si lamenta dei limiti del proprio potere: si accorge, infatti, di essere uno schiavo della morte, e di non poter far niente di fronte alla fine imminente. Fioccano riferimenti e citazioni che contribuiscono a collocare il pezzo, storicamente, nell'età dei Faraoni: Cadrò nell'Abisso, l'occhio di Horus riflesso negli occhi della notte che mi guardano; è verde l'occhio del gatto che brilla in questo tempio. Ecco Osiride risorto, risorto di nuovo: perché sono stato soggiogato dal potere? non voglio morire, sono Dio! Perché non posso continuare a vivere? quando il Creatore muore, ovunque c'è distruzione, e alla fine della mia vita sono schiavo del Potere della Morte. E' risaputo che il Faraone veniva ritenuto un vero e proprio Dio in terra, capace durante il suo regno di governare incutendo timore ed ottenendo tutto ciò che desiderasse; ma quando la morte si avvicinava, non pochi sovrani si saranno posti il fatidico dubbio, chiedendosi perché il proprio destino é il medesimo di tutti gli altri mortali. Certo, c'era l'appiglio della mummificazione, capace di donare l'eternità al Figlio del Sole, ma quanti, in punto di morte, ne erano davvero convinti? Quando ingannavo, giocavo sulla paura: la gente mi adorava e cadeva, cadeva sulle ginocchia. Portami il sangue e il vino rosso per il mio successore, perché è un uomo e un dio e anche lui morirà. L'ultima speranza stava nella vita eterna, consegnata assieme a tesori e ricchezze varie ad un sarcofago avvolto dal mistero e dalle presunte maledizioni: Sono freddo ma un fantasma vive nelle mie vene: tace il terrore che regnava, marmo nella pietra, guscio di un uomo, Dio preservato migliaia e migliaia di anni. Ma apri i cancelli del mio inferno e colpirò dalla tomba. E' anche un riferimento celato alla "schiavitù" nei confronti dell'intensa vita on the road a cui é sottoposta la band: non una critica di ciò, ma una constatazione di uno stile di vita fuori dalla norma, sicuramente. Il testo più complesso e denso di interpretazioni é quello dell'imponente Rime Of The Ancient Mariner, brano solenne, progressivo, ricco di riff metallici e cambi di atmosfera, ispirato all'omonimo poema del romantico Samuel Taylor Coleridge (1797-98), pubblicato nella raccolta Lyrical Ballads With A Few Other Poems; il romanzo racconta le vicende di un marinaio che viaggia con un equipaggio di duecento persone e si trova ad uccidere un alabatro (uccello che é segno di buon auspicio) posatosi sulla nave; la nave viene dunque colpita da una maledizione, anche perché gli altri marinai non avevano condannato il gesto del protagonista: tutto l'equipaggio, vittima di spettri, navi fantasma e serpenti infernali, muore in lunga agonia, ad eccezione del marinaio, che sopravvive nel rimorso, costretto a raccontare la vicenda ad ogni persona che incontra. Le interpretazioni sono molteplici, perché Coleridge inserisce riferimenti filosofici, spirituali, mistici, reali e soprannaturali al fine di rendere l'opera un'allegoria della vita: la ciurma incarna l'intera umanità, l'alabatro il patto d'amore che dovrebbe unire tutte le Creature di Dio, la nave il microcosmo dove le azioni malvage di ognuno si ripercuotono sulla collettività. Potrebbe anche essere una parabola del poeta che, come il marinaio, perde il contatto con la natura e cerca disperatamente di ritrovarlo. Harris scrive il testo in forma di riassunto e cita quattro versi originali, in un elaborato lunghissimo e dettagliato nel quale spiccano i momenti più cruenti, quelli dell'incontro col vascello fantasma (laggiù, urla il marinaio, laggiù una nave all'orizzonte: ma come può muoversi senza che il vento le riempa vele e senza la marea? guarda, viene verso di noi, si avvicina come se uscisse dal sole! Guarda, non c'è equipaggio, non c'è vita a bordo ma, aspetta, ci sono la Morte e la Morte in Vita, si giocano la ciurma a dadi: lei vince e il marinaio ora le appartiene, poi uno a uno i marinai cadono morti, 200 uomini; lei, la Morte in Vita, lascia vivere il prescelto), quelli in cui i marinai morti vengono posseduti da spiriti inquietanti (senti i gemiti dei marinai morti, guarda, si muovono e incominciano a risvegliarsi, corpi sollevati da spiriti benigni: nessuno di loro parla e hanno gli occhi spenti, ma la vendetta non è finita, la differenza ricomincia, cade in una trance e l'incubo continua) e quello finale, contentente la morale del racconto: il marinaio rimane solo, poi una barca gli viene incontro: una gioia incontenibile, la barca del timoniere, suo figlio e l'eremita. La sofferenza dell'esistenza ricadrà su di lui mentre la nave, come piombo, affonda nel mare; l'eremita assolve il marinaio dai peccati, il marinaio è costretto a raccontare la sua storia, a raccontarla ovunque vada per diffondere con il suo esempio la Parola: dobbiamo amare tutto ciò che Dio ha creato, e l'ospite è triste ma più saggio, e il racconto continua. Una composizione ambiziosa e complessa, che rappresente un piccolo grande gioiello all'interno di un disco grandioso. Superata la pregevole strumentale Losfer Words (il titolo deriva dall'abbreviazione gergale dell'espressione Lost For Words, cioè senza parole), consueta parata di melodie, galoppate e contorsioni torrenziali, si giunge al riff "ad incastro" dell'aspra Flesh Of The Blade, che cresce in un chorus più aperto e, ispirata dalla passione di Dickinson per la scherma, racconta le gesta di uno spadaccino che si allena per vendicare la morte della famiglia: Da bambino sfidavi i draghi con quella spada di legno così possente; eri San Giorgio o Davide e uccidevi sempre la bestia; le cose cambiano velocemente e hai dovuto crescere alla svelta, una casa di macerie fumanti e i corpi ai tuoi piedi. Morirai come hai vissuto, con il luccichio della lama, in un angolo dimenticato da nessuno; hai vissuto per toccare, per sentire l'acciaio: un uomo e il suo onore, l'odore del cuoio trattato, la maschera di ferro duro come l'acciaio, tagli e affondi e duelli al comando del maestro di spada. Ti ha insegnato tutto ciò che sapeva, di non aver paura di chi è mortale, e sai che compierai la tua vendetta nell'urlo di uomini malvagi. La passione per la spada ritorna anche in The Duellist, che é però tratta dall'omonimo film del 1977, a sua volta ispirato dal racconto The Duel (1908) di J. Conrad: narra dell'eterna sfida a colpi di spada tra degli uomini che, al tempo di Napoleone, si affrontano più volte nel corso della vita per difendere il proprio onore; in realtà, é un manifesto contro la stupidità di chi sceglie di "morire per onore", cosa che viene ritenuta sciocca se inquadrata nell'ottica di una serie di duelli dediti soltanto alla mera dimostrazione di orgoglio e superiorità: combattere per l'onore, combattere per lo splendore, combattere per il piacere, combattere per morire. Musicalmente complessa e dotata di una prolungata sezione strumentale, Back In The Village é il sequel della celebre The Prisoner, contenuta sul masterpiece The Number Of The Beast (sono tornato al villaggio, di nuovo), e racconta di come il protagonista, in realtà, sia prigioniero della sua stessa fantasia e di come non riesca a liberarsi di questo stato: il villaggio coincide con il luogo dei suoi sogni e dei suoi incubi (le domande sono un peso e le risposte sono una prigione per noi; cucine bombardate, i tavoli cominciano a bruciare, ma continuiamo a camminare nella valle; altri cercano di spegnere la fiamma interiore, ma bruciamo più vividamente di prima). Tra le strofe, viene sussurrato un provocatorio ed impercettibile six six six, mentre la frase non sono un numero, sono un nome é la citazione più chiara e diretta di The Prisoner.

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