ETERNAL DEVASTATION

DESTRUCTION [THRASH METAL], 1986
Venuti fuori nel momento in cui la Germania ha assestato un micidiale colpo alla scena metallica Europea, spostando gli standard qualitativi generali su coordinate ancora più violente e schiumanti di rabbia di quelle dei pari gradostatunitensi, i Destruction costituiscono -assieme a Sodom e Kreator- la 'Sacra Triade del Thrash' che tante teste ha fatto sbattere a destra ed a manca nel corso degli anni. Il 1986 è un anno basilare sotto molti punti di vista, e la sudditanza psicologica di certi gruppi europei verso modelli d’oltre oceano è ormai quasi alle spalle. Acquisita anche una certa padronanza degli strumenti che mancava agli esordi e che, oltre ad aver fatto inizialmente storcere il muso a molti, me compreso, era divenuta assolutamente necessaria per sostenere architetture musicali che si facevano via via sempre più complesse ed articolate spalancando la porta al thrash metal più accattivante e qualitativamente importante degli anni a venire, i Destruction erano ormai pronti ad assestare un colpo pesantissimo, resosi necessario anche per sostenere il confronto con una concorrenza che si faceva sempre più agguerrita. Una delle poche critiche che si poteva muovere al precedente Infernal Overkill riguardava infatti una perizia tecnica perfettibile, cosa che comunque non sembrava affatto aver spaventato la massa di kids che avevano già eletto la band di Lorrach tra gli alfieri del movimento thrash dell'epoca, critica che trova invece una prima smentita in questo Eternal Devastation, lavoro che propone una band che oltretutto ha raggiunto anche una maggiore coesione rispetto al precedente. L’opener Curse the Gods sembra la prosecuzione naturale di quanto sentito su Infernal Overkill, solo con un songwriting più maturo e performante, non è un caso che il riff di questo pezzo sia ancora oggi considerato come uno dei più rappresentativi della scuola teutonica del Thrash dei mid 80’s. La seguente Confound Games riporta agli schemi della prova precedente, risultando leggermente fuori contesto rispetto al generale miglioramento di Eternal Devastation, ma già con le seguenti Life Without Sense, United by Hatred e soprattutto con il noto anthem Eternal Ban, i Destruction mettono bene in chiaro cosa sono capaci di fare, confezionando un lotto di pezzi che sono certamente degni di essere considerati classici del settore in virtù della loro pesantezza, del loro martellare, della loro carica di malvagia potenza e di elaborazione del songwriting, il tutto tenendo sempre presente l’anno di uscita dell’album. Upcoming Devastation è delirio puro, mentre Confused Mind chiude dignitosamente un lavoro che vive nella parte centrale i suoi momenti migliori. Una band che, seppur tra altri e bassi, è da considerare come fondamentale per lo sviluppo del thrash, un genere che aveva, ha ed avrà sempre un posto di rilevo nel cuore degli ascoltatori dell’estremo. da Metallized.it
THE ULTRA-VIOLENCE

DEATH ANGEL [THRASH METAL, 1987]
L'Heavy metal è da sempre ritenuto un genere che presenta al suo interno varie diramazioni, vere e proprie scene che si sono formate in luoghi lontanissimi ed hanno avuto una singolare fetta di appassionati. Tra le tante diversità che le caratterizzano, è ben riconoscibile un punto in comune: col passare degli anni mentre le luci dei riflettori si rivolgono altrove solo una ristretta cerchia di gruppi si merita il compito di identificare la scena. Così, molte bands finiscono meritatamente nel dimenticatoio ed altre assumono lo stato di cult band per aver regalato ai veri appassionati anche un solo gioiellino prima magari di sparire sfortunatamente nel nulla. Si tratta per lo più di gruppi e dischi datati poco conosciuti alla massa, ma che meritano di essere (ri)scoperti. Senza andare troppo in fondo con la ricerca, un nome interessante e che si adatta al discorso precedente è quello dei Death Angel, ritornati on stage negli ultimi anni. Proprio in virtù del loro ritorno questo dovrebbe essere un nome familiare anche a chi si è avvicinato solo da poco al thrash metal. Il gruppo di origine filippina con una media anagrafica bassa [il batterista Andy Galeon all'epoca del debutto era poco più che tredicenne] si forma nel 1986, proprio mentre il mercato era intasato da uscite qualitativamente eccelse. Spinti anche da questo momento favorevole, i cinque registrano il loro debutto un solo anno più tardi. Ricapitolando: se cinque ragazzi decidono di formare una band e con un anno di esperienza si dichiarano pronti per debuttare, ci sono tutte le probabilità per un risultato insoddisfacente, figlio di una mancata maturazione e quindi in ottica futura da vedere come un solo punto di partenza. Quello che viene fuori dalle registrazioni è 'The Ultra-Violence': uno dei dischi thrash più belli in assoluto. Esagerazione o affermazione scontata? Basterebbe una composizione come la title track e far pendere per la seconda opzione. Ascoltando questa strumentale di 10 minuti si fa veramente fatica a credere alle carte d'identità dei cinque e sale il rammarico per quella che poteva essere una carriera ricca di soddisfazioni. Di certo ai Death Angel non mancavano originalità e tecnica, ma anche quando c'era da pestare il piede si dimostravano all'altezza, come dimostrano delle vere killer tracks quali 'Mistress Pain' e 'Kill As One'. Nell'opener 'Thrashers' e in 'Voracious Souls' si fanno notare azzeccati e rocamboleschi cambi di tempo, mentre sono le aperture melodiche il punto forte di 'Evil Priest' e della pur aggressiva 'The Final Death', altro vetta creativa del disco. Prima dello scioglimento la carriera dei Death Angel sarebbe proseguita con altri due album, "Frolic Through The Park" del 1988 e Act III del 1990, l'apice del gruppo secondo Mark Osegueda. Nella stessa intervista Mark dichiarò che comunque il disco per il quale sarebbero stati ricordati è 'The Ultra-Violence'. Noi, infatti, abbiam voluto ricordarli così. da Metallized.it
SCREAM BLOODY GORE

DEATH [DEATH METAL], 1987
Non si può dichiararsi cultori di Death metal classico e non avere questo CD. Un disco che ha mille difetti, questo è vero, ma che rappresenta in maniera inequivocabile ciò che è stato un certo tipo di death metal ai suoi albori, e che ci fa apprezzare l'evoluzione che la storica band americana ha compiuto in questo anni. La formula è semplice, molto semplice: una sorta di thrash molto veloce, riffing furioso, la tipica timbrica semigrowl di Schuldiner. La varietà non caratterizza sicuramente questo full lenght, ma va pur sempre sottolineato che si tratta di un esordio. E se non badiamo a troppi particolari tecnici potremo apprezzare tutta la potenza e la trasgressività della proposta. Cercare in questo album l'innovazione o la tecnica equivale a dire di non averne capito nulla. Non siamo davanti ai Death di Symbolic, o ai Death di Human: siamo davanti ai Death che assieme ad altri nomi altrettanto importanti hanno dato il via ad un genere. I tempi erano a malapena maturi per riuscire a digerire questo 'Scream Bloody Gore', e sarebbe un ingiustizia giudicare questo lavoro con i criteri di oggi. Dare una valutazione oggettiva a questo lavoro è quantomai sbagliato; la prima cosa da fare è dimenticare tutte le evoluzioni che il metal in questi anni ha portato con sè: questo album non ha dietro di sè influenze particolari, ma si propone esso stesso come una sorta di punto di partenza, come effettivamente sarà, per parecchi gruppi. A questo punto non vi rimane che assaporare a pieno la potenza che le tracce di questo lavoro vi riverseranno addosso: l'influsso fortemente thrash fa sì che velocità ed aggressività non manchino mai. Tra gli episodi migliori ritroviamo l'opener 'Infernal Death', dall'incedere iniziale monolitico che poi esplode in pura violenza, la title-track e la fenomenale 'Evil Dead'. Quasi sembra incredibile la strada che i Death hanno compiuto da questo 'Scream Bloody Gore' a 'The Sound Of Perseverance', ultimo loro album in studio. Non si può non cogliere l'occasione per ricordare Chuck Shuldiner, fondatore di questo spettacolare gruppo, che è stato divorato dalla malattia e ci ha lasciato ineredità la sua grandezza musicale e personale. Questo album è la testimonianza di come questo artista abbia saputo evolversi, di come abbia saputo abbandonare determinate sonorità che in sè potevano diventare futili per lanciarsi su strade sì difficili, ma anche appaganti. Onore ad un gruppo senza il quale il metal non sarebbe arrivato a dove è oggi.
LEPROSY

DEATH [DEATH METAL], 1988
Un anno dopo la pubblicazione di Scream Bloody Gore, esce Leprosy, con una line up totalmente rinnovata rispetto a quella del disco di debutto, ma che comunque aveva avuto modo di solidificarsi bene; infatti al tour di supporto di 'Scream Bloody Gore' i Death si presentarono con la line up che poi avrebbe inciso 'Leprosy'. Quindi entrano alla seconda chitarra Rick Rozz, Bill Andrews dietro le pelli e Terry Butler al basso. Rispetto al devastante assalto sonoro di 'Scream Blody Gore', grezzo e minimale, con 'Leprosy' i Death iniziano a delinearsi nella loro forma più sofisticata. Va detto che benchè ci siano stati notevoli progressi, l'album suona ancora molto grezzo, anche se non quanto il suo predecessore. Innanzitutto la produzione è meno caotica, il sound ed i tempi si fanno in certe sezioni di variazione più monolitici e lenti, si fa un più largo uso della melodia, che ancora non ha però il ruolo principale che gli verrà attribuito con gli album seguenti. Da molti viene considerato altrettanto fondamentale per la scena Death quanto il suo predecessore. I tempi della batteria di Andrews iniziano a prendere una forma ben più complessa, riuscendo ad alternare accelerazioni, un buono uso della doppia cassa e alcuni tratti caratterizzati da stacchi sincopati e in controtempo. Come già detto i solo di Chuck sono ben altra cosa rispetto a quelli di Scream Bloody Gore, e stesso discorso può essere fatto per il riffing. Iniziano a comparire a sprazzi anche le famose scale su cui Chuck in futuro avrebbe costruito melodie immortali. L'opener di 'Leprosy', la title-track, è anche la più lunga e riesce egregiamente a coniugare momenti tipici del futuro Death sound con alcuni più ciechi e violenti. Grandiosa anche per il fatto di essere sicuramente quella con più sfaccettature di tutto l'album, ricca di cambi di tempo e dotata di un mood assasino. La seconda track è 'Born Dead', che insieme a 'Zombie Ritual' di 'Scream Bloody Gore' e a qualche altra canzone di questo 'Leprosy,' resterà tra gli autentici inni della band statunitense, che continuerà a suonarla per molto tempo ancora in sede live. 'Born Dead' è una scheggia oscura e tirata che ti si conficca sotto la pelle già dai primi ascolti, una canzone a dir poco grandiosa ed eccezionalmente immediata. I due seguenti capitoli musicali 'Forgotten Past' e 'Left to Die', riescono a mantenere alto il trend qualitativo pur non apportando sostanziali innovazioni, si rivelano comunque altamente trascinanti e completi, la volata ideale per lanciare la vera perla di quest'album: 'Pull the Plug'. Tra le canzoni preferite di sempre da Chuck, è stata usata anche come track di chiusura sul formidabile 'Live in L.A.'. Un riffing semplice ma talmente magnetico, che è in grado di dare un qualcosa di indescrivibile ogni volta che la si ascolta, densa di potenza e carica di significato. 'Open Casket' e 'Primitive Ways' altre due grandiosi canzoni, sono fra quelle con l'attitudine più 'in your face' dell'album, e rappresentano in qualche modo la grande eredità di 'Scream Bloody Gore'. Non mancano comunque parti più ragionate e meno tirate come ad esempio poco prima della parte centrale in 'Primitive Ways'. Canzone di chiusura è 'Chock on It', l'altro classico insieme a 'Born Dead' e 'Pull the Plug', che fa uso dei tipici riff rallentati che conferiscono alla produzione targata Death quell'alone un pò mistico. L'album che segna di più il distacco dal precedente in tutta la discografia dei Death. Leprosy è un album che va decisamente considerato al pari di 'Scream Bloody Gore' per valore storico, se non anche al di sopra per la qualità effettiva della musica, che inizia ad avviarsi verso forme più complesse e tecniche, che raggiungeranno via via il culmine sino ad arrivare alla fine della storia. da Truemetal.it
SPIRITUAL HEALING

DEATH [DEATH METAL], 1990
La prima parola che viene da pensare a proposito di quest’album dei Death è 'sottovalutato'. E a pensarci un po’, ne verrebbe in mente anche un’altra, ovvero 'evoluzione'. A molti sfugge l’importanza di questo 'Spiritual Healing'. Ogni gruppo, specialmente se possiede una discografia invidiabilmente estesa, annovera almeno un album che, non si sa perché, richiama meno attenzione o semplicemente viene un po’ accantonato per poi essere dimenticato. Spesso lo si ricorda senza che gli venga riconosciuta la giusta importanza a livello prettamente musicale. Si, perché molte volte è più facile dimenticarsi di album belli che di quelle ciofeche che ci fanno ridere per mesi. Questo è un vero e proprio paradosso. 'Spiritual Healing' venne partorito nel silenzio che seguiva il boato per la pubblicazione di un 'Leprosy' che già mostrava segni di una futura evoluzione o semplicemente di una futura maturazione. Dopo il massacro operato su uno degli album più importanti di tutti i tempi nel campo del death metal, 'Scream Bloody Gore', Chuck Schuldiner decise di dare una svolta al suo progetto. Rick Rozz venne scaricato dal gruppo e al suo posto fu chiamato un certo James Murphy. Il posto da batterista rimase a Bill Andrews, anche se questa militanza non durò molto, estinguendosi lo stesso anno, prima delle registrazioni di Human. Terry Butler si occupò del basso e così il gruppo fu pronto a registrare quest’album, uno Spiritual Healing che servì come solido ponte tra il passato feroce e il futuro proiettato alla sperimentazione e alla tecnica. Le cose stavano cambiando e lo si può già notare dalla copertina, per poi non parlare dei testi. Morte e scheletri non ci vengono più sbattuti in faccia senza troppe preoccupazioni e ad essi subentra una riflessione sulla società moderna, sul crimine, sulle speculazioni e sul potere dei soldi, un concept incentrato su di una decadenza morale, non più fisica. Vengono affrontate così tematiche disparate come l'aborto o persino la predicazione televisiva; e c’è la preoccupazione per una società ormai svuotata da ogni valore e da ogni paura, una società che si lancia in sperimentazioni sugli umani senza preoccuparsi delle conseguenze. Chuck urla i misfatti come a volere denunciare che non è questa la strada giusta da imboccare. La musica segue gli stessi binari a cavallo tra la classica oscurità delle sezioni più doom-oriented e la ferocia d’esecuzione riservata per le veloci partenze. La tecnica dei musicisti qui coinvolti è evidente e lo stesso Chuck mostra di aver fatto passi da gigante con la sua chitarra. Le sue partiture soliste ora sono più pulite nell’esecuzione e si scontrano perfettamente con quelle di un Murphy immortalato ai tempi d’oro. A dire il vero, l’approccio iniziale di Living Monstrosity non mostra segni di cambiamento rispetto al passato. La registrazione è molto simile a quella di Leprosy, ma il tutto risulta notevolmente più pulito. Tuttavia, possiamo già notare che alcune sezioni di chitarra, duetti specialmente, mostrano influenze progressive, con notevoli cambi di tempo. L’intensità è invidiabile, per poi non parlare della facilità di memorizzazione dei pezzi! Essi sono sempre catchy e travolgenti. 'Altering the Future' dà suo contributo alla sperimentazione con partiture sicuramente originali e mai provate dal gruppo prima d’ora. Non mancano le feroci partenze, tuttavia la voglia di cambiamento attecchisce sui riffs creando un perfetto ibrido. Le parti soliste sono più armoniose e melodiche se vogliamo, senza dimenticare che si tratta comunque di un disco death metal. 'Difensive Personalities' è da segnalare per i suoi tempi sì selvaggi, eppure estremamente coinvolgenti. Le parti in mid-tempo ancora una volta mostrano segni di cambiamento perché non più votate a ricreare il marciume degli esordi. Esse danno un tocco tecnico al tutto, grazie a notevoli fraseggi da parte delle chitarre. L’atmosfera, in coincidenza con quelle sezioni, diventa maggiormente oscura e drammatica. Persino la voce di Chuck sembra essere notevolmente maturata del dosare perfettamente la sua potenza ed aggressività. 'Within the Mind' aggiunge nuovi elementi progressive e la sua struttura pare incredibilmente proiettata al futuro stile del gruppo. 'Spiritual Healing' riprende la pesantezza dei dischi passati con un occhio sempre al futuro, specialmente se consideriamo il lavoro svolto dalle chitarre soliste. 'Low Life' è la definitiva conferma che qualcosa stava mutando in fase di songwriting. Le chitarre e i loro fraseggi puntano tutto sull’impronta progressive e l’incedere rimane sempre in bilico tra death metal e sperimentazione. L’andamento trascinato e gli improvvisi up-tempo fanno da contorno alle urla strazianti di un grande Chuck. Con Genetic Reconstruction si tocca un nuovo apice d’intensità poiché se già il riff posto in apertura è da applausi, il refrain è qualcosa da incorniciare. Ancora una volta, come potrete appurare, molte sezioni marcano la trasformazione. A concludere il tutto, troviamo una 'Killing Spree' che non si distacca da tutto ciò che è stato fatto finora, e meno male! Le classiche sfuriate sono sempre bilanciate con la tecnica acquisita e a completare il quadro ci troviamo sempre i melodici rallentamenti. Un approccio tecnico alla ferocia di Leprosy: con questa frase è in parte sintetizzabile l'essenza di questo disco. Tutto su Spiritual Healing trasuda di una voglia di novità, di cambiamento. I Death del 1990 sono un perfetto ibrido tra il recente passato votato all’estremismo e il futuro che riserverà a Chuck tante soddisfazioni. DaRockline.it
HUMAN

DEATH [DEATH METAL], 1991
I Death. Per molti il punto zero del Death inteso come stile per altri la band del genio Schuldiner, per tutti quelli che a qualsiasi titolo e con qualsiasi inclinazione personale amano il Metal una band storicamente imprescindibile almeno da Scream Bloody Gore in poi. Quanto la morte prematura di Chuck abbia contribuito ad ingigantire la fama della band è difficile dirlo –perché i Death erano Chuck Schuldiner- ed in ogni caso è una componente da tener presente quando si parla della leggenda Death, quello che è certo è che il gruppo si sarebbe comunque assicurato un posto di assoluto rilievo nel panorama musicale estremo e, a mio giudizio, in quello della musica in generale. Le innovazioni apportate dai Death sono state infatti tali da rimanere scolpite indelebilmente nella struttura portante di molti dei generi che oggi sono dati per stilisticamente assestati e definiti, ma che all’epoca di Scream Bloody Gore erano nella migliore delle ipotesi ancora incerti in quanto forse solo abbozzati in forma grezza da Venom, Hellhammer e pochi altri, e trovano probabilmente il loro momento più significativo nel rapporto musica-testi impegnati con il raggiungimento di un equilibrio espressivo pienamente Technical Death con Leprosy prima, Spiritual Healing poi, ed infine con la consacrazione Human, l’oggetto della presente recensione. Nonostante una produzione rivedibile, con particolare riferimento alla resa del basso dell’ottimo Steve DiGiorgio Human è uno di quei dischi che vanno oltre la resa acustica dei pezzi, forti di un’aura di potenza, violenza, carica espressiva, architetture musicali –nella fattispecie inglobando elementi prog, jazzy e non facendo mistero di riferirsi in ultima analisi al Metal classico- testi improntati al sociale che parlavano spesso di droga ed aborto che nel Death non sono certo usuali. Human è un ribollente concentrato di riff precisissimi ed intricati, di attacchi sonori subdolamente portati con tempi dispari, veicolato da lyrics di livello superiore alla media, chitarre ultracompresse e claustrofobiche, aperture insospettabilmente ricercate in rapporto alla malvagità pura che ammanta di una cappa di oscura velenosità un lavoro tanto geometricamente perfetto, quanto magmatico e cangiante nelle emozioni suscitate. Un continuo accelerare al limite massimo per poi sbattere l’ascoltatore in una dimensione destabilizzante con neri controtempi da vertigine, per poi ripartire senza pietà, senza limiti, il tutto giovandosi di una line-up che oltre al suo mentore ed al già citato DiGiorgio, si avvaleva del duo Masvidal/Reinert, successivamente coinvolto nel grandioso progetto Cynic. Non si è ancora citato nessun pezzo? Perché, voi siete in grado di descrivere quale preferite tra la perfezione simmetrica di 'Flattening of Emotions' e quella di 'Togheter as One'? Tra la violenza selvaggia di 'Lack of Comprehension' e la ricercatezza di 'Suicide Machine', quella di 'Secret Face' o di 'Cosmic Sea'? E' un album semplicemente e incontrovertibilmente magnifico in tutto, produzione zoppicante compresa, ed assieme ad alcune prove di Cynic, Atheist e Carcass tanto per fare qualche nome, ha marchiato un’epoca e quelle seguenti. Semplicemente epocale. Da Metallized.it

I KREATOR, PETROZZA E LA GERMANIA RIUNITA
TERRIBLE CERTAINTY!
DI RINO GISSI, TRATTO DA METALLIZED.IT

Non hanno bisogno di presentazioni, perchè per loro parla la storia ed è una storia che fa parecchio rumore: il frastuono di un thrash metal devastante e ormai da enciclopedia accompagna da venticinque anni i Kreator dell'intelligente Mille Petrozza, chitarra, voce e leader storico dell'ensemble di Essen, quello che ha partorito capolavori assoluti nella storia dell'heavy metal estremo quali Pleasure To Kill, Terrible Certainty ed Extreme Aggression (per citarne solo alcuni) e che oggi sembra essere saldamente tornato nell'Olimpo del thrash con una triade validissima di dischi pubblicati nel nuovo millennio; e il 2010 è una data particolare per i Kreator, i loro fans, i thrashers tedeschi tutti e non solo: oltre ad essere, come detto, il venticinquesimo compleanno del combo di Petrozza, il 2010 è il ventennale di un concerto storico tenutosi a Berlino Est nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro che stabiliva la divisione tra l'Ovest e l'Est della metropoli tedesca. Un avvenimento storico, perchè prima di allora per i cittadini di Berlino Est era impossibile viaggiare ed assistere ai live.show delle loro band preferite, era impossibile persino acquistarne i dischi: con questa data fu idealmente sancita l'unificazione tra gli headbangers di Est e quelli di Ovest, un'unificazione simbolica celebrata sul palco da quattro band: i birraioli Tankard, i Coroner, i Sabbat e, come headliner, appunto, i Kreator. Mille Petrozza, figlio di un immigrato calabrese, ricorda ancora oggi l'importanza capitale di quella data, anche se afferma che all'epoca i musicisti erano troppo giovani e non si resero effettivamente conto di vivere un avvenimento storico; prima di quell'evento, la sua band aveva suonato solo in Polonia ed Ungheria per quanto riguarda i Paesi sotto l'influenza sovietica, e i ragazzi della DDR avrebbero voluto fortemente partecipare ad un live show del quartetto di Essen. Era paradossale non poter suonare in una parte del loro Paese, in pratica dietro l'angolo: la decisione dell'abbattimento del Muro fu presa quasi di sorpresa e proprio perchè la gente non se lo aspettava il concerto fu imperdibile. A Ovest era difficile capire cosa significasse crescere in un Paese dove era impossibile anche solo assistere ad un concerto della propria band preferita, o acquistarne gli album: Petrozza conosceva bene i disagi della DDR perchè la sua famiglia aveva dei parenti ad Est, ai quali spediva caffè e cioccolato, beni preziosi che era pratiamente impossibile reperire nell'area di influenza sovietica, e basti questo come esempio delle sgradevoli restrizioni ai quali si era sottoposti nella Berlino Orientale. A Est la scena musicale, per quanto minata dalle leggi e dalla tirannia, era già calda, ma l'atmosfera e l'energia dell'imminente show della riunificazione sarebbero stati da brividi. Quel muro non aveva più ragione d'esistere.

IL MURO E IL THRASH. Il suo nominativo ufficiale era 'Barriera di protezione antifascista', divideva Berlino Est, capitale della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est) dalla Repubblica Federale Tedesca (Germania Ovest), fu eretto dal governo comunista nel 1961 e abbattuto in un clima di festa nel 1989, dopo esser stato macchiato del sangue di un centinaio buono di vittime che avevano cercato di varcare il confine: simbolo della Cortina di Ferro, il Muro di Berlino fu costruito per evitare il copioso spostamento degli abitanti della zona Est della città dopo la Guerra Fredda, dato che al termine della II Guerra Mondiale Berlino fu divisa in settori e nella zona occidentale vi erano decisamente maggiori prospettive lavorative e sociali per i cittadini dell'Est. Inizialmente questa barriera era lunga più di 155 km, e venne rinforzata e sviluppata nel corso degli anni dalla tirannia sovietica; l'assurdità di questa divisione interna alla Germania stessa iniziò a traballare con il crollo dell'Unione Sovietica, e nel 1989 finalmente fu permesso il libero passaggio dei cittadini dell?Est in Berlino Ovest (e viceversa), annuncio che fu accolto nel tripudio di vere e proprie manifestazioni popolari: lo smantellamento della Barriera, iniziato dai cittadini stessi come gesto emblematico fu ultimato successivamente dallo Stato con aquipaggiamento industriale: il 3 ottobre 1990 fu ufficialmente ultimata la riunificazione della Germania. Sembra curioso, ma in quel 1990 la storia e la cronaca della Germania e del Muro abbattuto stava per intrecciarsi con quella di una rockband che negli ultimi tempi era salita agli onori della cronaca ponendosi in testa al movimento hard'n'heavy nazionale. La Germania e l'Heavy Metal, che oggi tendiamo ad associare in abbinamento al filone del power metal -prima con gli Accept di Udo e poi con gli Helloween, che modernizzarono questo genere musicale ‘spingendo’ tutta la nuova generazione, dai Gamma Ray ai Blind Guardian in giù- vantava a metà anni '80 una floridissima scena thrash metal, violentissima e cruenta, che si poneva a fiera contraltare della scena californiana, quella per intenderci degli Slayer e dei Metallica; questa scena tedesca era guidata dalla cosiddetta Triade, che oltre ai Kreator vedeva scintillare l'isterico rifferrama degli incazzatissimi Destruction e dei 'guerreschi' Sodom. Sicuramente, però, è la formazione di Mille Petrozza quella che meglio incarnava l'intero movimento, e con maggior successo stamperà nella storia il proprio logo e la propria musica, partorendo dei veri capolavori di thrash metal grezzo e minimale (agli esordi, datati 1985 con l'ignorantissimo Endless Pain) e via via più strutturato, passando attraverso il masterpiece assoluto Pleasure To Kill (1985) e sfociando in un songwriting sempre più evoluto e ragionato, che in Terrible Certainty ed Extreme Aggression trovava la massima ispirazione sociale con una critica intelligente e feroce nei confronti della politica e della realtà quotidiana. Il tutto ben amalgamato con delle vocals che, rispetto a Pleasure To Kill, si fanno meno strozzate e più melodiche, così come il sound complessivo, che appare più stratificato e meno impastato sotto la ferocia cieca delle chitarre, che precedentemente travolgeva ogni forma di melodia e virtuosismo. Proprio nel 1990 esce Coma Of Souls, l'ultimo grande capolavoro della band, un delirio apocalittico dai contorni quasi death oriented, ultima perla di un quinquennio stellare che ha portato il mitico logo rosso sulle t-shirt strappate e le toppe colorate dei metalhead di tutto il mondo. A Essen la scena hardcore punk e quella heavy metal coesistevano in modo omogeneo, ed entrambi affascinavano i giovani Kreator, che dunque non dovevano sforzarsi di appartenere alla scena: quella era la loro realtà di tutti i giorni, e il processo che in un paio di album avrebbe portato la band a diventare la 'voce del popolo' sarebbe stato naturalissimo. L'ascesa del thrash, fresco e sempre più popolare, non fece che consolidare questa posizione grazie alle liriche ribelli di Petrozza, che trattando della vita quotidiana erano visti dai fans quali dei ragazzi di strada, esattamente come loro. Li sentivano vicini, fratelli insomma. Oggi Essen è stata proclamata capitale europea della cultura, ma per il cantante italotedesco i fondi di questa iniziativa dovrebbero essere usati in maniera intelligente, cosa che finora non è avvenuta: 'Vorrei che si costruissero posti per i ragazzi più giovani e creativi, dove potrebbero cioè dare sfogo al proprio talento e alla propria energia, che sia musica, che sia cinema, che sia pittura, non importa. Al momento Essen non dispone di spazi del genere, dedicati all'arte sotterranea'.

IL CONCERTO. Il concerto fu indimenticabile. Le tre band che suonarono prima dei Kreator scaldarono a sufficienza l'enorme platea di headbangers sudati e bramosi di una valvola di sfogo, di un inno alla libertà, di una vibrante mazzata di heavy metal duro e puro. I Kreator, i titani del thrash, si scagliarono sulla folla con un binomio terrificante estratto da Extreme Aggression, consistente in Some Pain Will Last ed in una versione travolgente dell'orgasmica title track, un pezzo che già da solo vale il prezzo di un biglietto; la scaletta proseguì sanguinolente, con Riot of Violence Pleasure To Kill tratte dal capolavoro omonimo del 1986, Toxic Trace , Bringer Of Torture, Behind The Mirror e Awakening of the Gods da Terrible Certainty, Flag Of Hate e l'utoreferenziale Tormentor dall'abrasivo disco di debutto, Love Us or Hate Us da Extreme Aggression. Il moshpit si scatenò senza freni inibitori, ed una delle canzoni più apprezzate e celebrate dagli headbangers locali fu il classicissimo Betrayer, una scorribanda devastante che non potrebbe lasciare indifferente proprio nessuno! La prestazione della band fu immortalata nella VHS Live In East Berlin e diffusa rieditata nel 1991 assieme ad un film horror, Hallucinative Comas, con colonna sonora tratta da Coma Of Souls; il materiale è stato aggiornato e modernizzato in DVD nel 2008 ed è uscito, completato da un cd audio, con titolo At the Pulse of Kapitulation: Live in East Berlin, 1990. Ne è passato di tempo, da allora. I Kreator hanno affrontato l'inevitabile depressione che negli anni '90 ha afflitto quasi tutte le potenze mondiali del thrash, ripiegando da Renewal su un sound pseudo industrial che ha generato qualche album (come Endorama) davvero poco graditi dai fans. Il nuovo millennio è coinciso col ritorno alle origini, iniziato con Violent Revolution, proseguito da Enemy Of God e coronato nel 2009 da Hordes Of Chaos, ciliegina sulla torta di una triade di killer album capaci di riportare in alto ikl nome della band. Ma se il prestigio dei Kreator ha subito sbalzi ed è tornato oggi a splendere, la situazione sociale in Germania non è poi molto cambioata rispetto a vent'anni fa, come ci spiega lo stesso Petrozza: 'Come cittadino tedesco per me quest'argomento è molto delicato. L'abbattimento del muro fu senz'altro una gran cosa. Il modo in cui l'intera operazione fu condotta, però, è discutibile. All'improvviso tutti i valori nei quali credevano i cittadini della DDR furono disintegrati nel nome dello stile di vita 'occidentale'. Certo, nella Germania Est il Governo limitava gravemente le libertà essenziali del popolo, ma il loro sistema non era da buttare in toto. Qualcosa di buono c'era anche lì, tutto sommato. Invece si cercò di mettere subito sullo stesso piano Est ed Ovest e gli scompensi sociali furono inevitabili. Dopo 20 anni si tratta di una situazione ancora attuale e di una sfida da vincere il più presto possibile. Innanzitutto credo che il contributo storico della gente comune dell'Est andrebbe rivalutato, piuttosto che cancellare il suo passato con un colpo di spugna. Potrei fare lo stesso discorso a proposito dell'Unione Europea. Sulla carta è una gran cosa e anche all'atto pratico ci sono degli evidenti benefici per tutti. Dal punto di vista culturale, però, non vorrei che la UE diventasse un pretesto per 'americanizzare' ancora di più la nostra società, in modo consumistico. Al contrario, ritengo che le differenze culturali di ogni Nazione andrebbero preservate e difese. Non sono un patriota, ma so che l'Europa ha una lunga e importante storia alle spalle, e un'identità ben precisa. Dobbiamo stare attenti a non farci omologare nel nome dell'economia di mercato. In generale, viviamo in un mondo dove poche persone detengono un patrimonio immenso, quindi il potere, e tantissime devono lavorare sodo per far si che questo sistema non collassi. La mia opinione è che il concetto di capitalismo esasperato arriverà ad una conclusione, molto presto. Mi sta bene la competitività, anzi la ritengo positiva entro certi limiti, ma non accetto l'idea di vivere in una società dove la gente povera e malata viene abbandonata a sè stessa. Non si può ricondurre tutta la condizione umana alla sola logica del profitto, così come stiamo facendo: non potrà durare tanto a lungo'. Petrozza afferma inoltre che nè il socialismo nè la democrazia, e nessun'altra forma di governo sono sistemi capaci di garantire e proporre l'equità e la felicità ai cittadini. Il leader dei Kreator si ritiene una sorta di 'anarchico', ma nel senso più positivo del termine; sostiene che è nella natura umana opprimere il prossimo, perchè nella natura umana sta l'essere imperfetti: 'E' così che vanno le cose, non c'è alternativa, perchè è così che siamo fatti. Quando veniamo al mondo siamo creature uniche e speciali, puri come gli animali. Crescendo però questo stato di cose cambia e diventiamo gelosi, timorosi della morte, avidi... Però bisogna riconoscere che ci sono anche delle cose belle nell'essere umano: credo che la natura umana oscilli tra due poli, tra due aspetti che convivono in ognuno di noi'.

CONCLUSIONI. Sono sempre stati una band pensante, i Kreator: e da uno come Petrozza c’è sempre qualcosa da imparare, di sicuro tanto da ammirare, perchè se il mondo sta andando alla rovina, se i sentimenti vengono perennemente calpestati nel nome del dio denaro e della politica allora dobbiamo tenerci stretti questi guerrieri dal cuore grande e dal cervello fine, che da diversi lustri si prodigano per diffondere una mentalità umile e socialmente impegnata con la rabbia e la forza fisica tipica del nostro amato heavy metal. In molti pensano che la musica debba essere divertimento e basta, non messaggio politico: chi scrive pensa invece che essa debba essere sfogo delle emozioni più intense della personalità, e saper toccare ogni diverso tasto della vita che affrontiamo ogni giorno: i sentimenti, la critica sociale, il divertimento, il dolore, l’ansia, la paura. Si tende a dire che viviamo in un’epoca difficile e piena di problemi, ma i problemi e le difficoltà esistono da quando esiste la specie umana, perchè essa stessa ne è causa: lode a chi ha il coraggio di parlarne, come i Kreator appunto. Gli anni sono passati inesorabili, e la caduta del Muro ha lasciato danni e benefici nella popolazione tedesca: un Paese che appare al resto d’Europa come ‘forte’ e coeso è in realtà profondamente piegato dai postumi di quegli avvenimenti politici iniziati sin ai tempi della II Guerra Mondiale. E’ bene che questo non venga dimenticato e ci faccia riflettere, perchè situazioni analoghe –la divisione in ‘due’ della Nazione, i problemi del Sud (per noi italiani), la disparità socio-politica tra le diverse aree geografiche- sono gli stessi che deve affrontare il Nostro Paese, e che invece quasi si finge di ignorare.

INDIVIDUAL TOUGHT PATTERNS

DEATH [DEATH METAL], 1993
Esiste, nella mente di ogni artista, un'innata tensione alla completa maturazione del proprio percorso, ed in più generale al raggiungimento della perfezione artistica tramite l'espressione del proprio messaggio più puro e intenso. E i Death sono una delle pochissime band ad avere raggiunto tale traguardo; il cammino verso la perfezione di Schuldiner e dei suoi compagni di viaggio, che si concluderà, a parere di chi scrive, con l'immenso Symbolic, passa anche e soprattutto da Human e Individual Thought Patterns, dischi che lanciano la band verso le vette di un genere da essa partorito e che si mostrerà, negli anni, uno dei più interessanti e prolifici dell'intera scena. Una volta assorbita completamente la vena techno/progressive del precedente Human, i Death proseguono la strada intensificando l'approccio tecnico ma senza minimamente snaturare la vena death che dai tempi di Scream Bloody Gore portava la band ad eccellere nel panorama metal mondiale; il risultato è un disco di grandissima classe, imperniato su tecnicismi al limite dell'esasperazione funzionali ad una varietà stilistica che va oltre alla semplice presenza di tempi complessi e repentini cambi di ritmo. L'approccio della band non si limita infatti a rendere più articolate le strutture ritmiche e soliste, ma mira invece ad usare questa tendenza per integrare la carica distruttiva delle atmosfere macabre e maligne dei brani; ottenendo come risultato che queste risultano ancora più folli e frenetiche nella loro implacabile marcia verso la devastazione finale. Ad esempio di ciò si potrebbe prendere Jealousy: si tratta di un brano pesante, dall'incedere cupo, che fa dei mastodontici giri di basso di DiGiorgio il cardine perfettamente oliato della propria macchina da guerra; allo stesso modo brani come l'opener Overactive Imagination, la title-track o la famosissima conclusiva The Philosopher ci testimoniamo di una band in gran spolvero, capace di coniugare ritmiche serrate e irresistibili -Hoglan è perfezione assoluta per quanto riguarda la pulizia esecutiva- alla presenza di melodie marce e oscure, in grado di catalizzare l'attenzione dell'ascoltatore sull'ipnotico lavoro di riffing del geniale Schuldiner; il tutto a servire, come al solito, testi di una qualità superiore, e di gran lunga, alla media. Il disco si snoda lungo dieci tracce di media lunghezza per 40 minuti totali in cui una stellare line-up mette in mostra tutte le proprie carte in un'escalation di classe sopraffina: dalle irrefrenabili corse senza sosta di Overactive Imagination ai mid-tempos più cupi e opprimenti di Jeaolusy e Mentally Blind, dalle pesanti incursioni di DiGiorgio in brani molto bass-oriented come Destiny e Out Of Touch allo straripante lavoro solistico di Schuldiner (In Human Form, giusto per citarne una), è tutto un concentrato di momenti irripetibili e irraggiungibili, da anni punto di riferimento per chiunque si getti nel genere. Da Metallized.it
SYMBOLIC

DEATH [DEATH METAL], 1995
Questo album fu una sorta di profezia, una preparazione a quello che sarebbe culminato come un vero e proprio capolavoro; recensire questo album col senno di poi, con la consapevolezza di ciò che sarebbe successo, permette di metterne in mostra un aspetto molto importante. Oltre a descriverne la semi-perfezione, è possibile infatti prestare attenzione nel cogliere quei segni, quei particolari, che preannunciavano la svolta del successivo The Sound Of Perseverance. A far la differenza su questo capolavoro è stato sicuramente il drumming impeccabile, al limite della macchinosità, di Gene Hoglan, universalmente riconosciuto come uno tra i migliori musicisti dietro le pelli. Ma è anche la vena compositiva che si è rivelata magistrale, quasi da manuale. Quello che stupisce, come in ogni altro album dei Death, è come ci siano profonde differenze rispetto agli altri lavori, ma grande omogeneità all'interno delle varie canzoni; quasi che ogni loro album fosse un capitolo a sè stante, come se ogni volta desiderassero scrivere una nuova pagina nella storia del metal. Ecco così partorito Symbolic, forse il loro album più intricato, forse quello più geniale, in qualunque caso una perla difficilmente imitabile. Ripensando alle strutture semplici del loro esplosivo esordio, si rimane quasi allibiti davanti a pezzi come l'introduttiva title-track: passaggi funambolici si susseguono, si rincorrono e si intrecciano, e il risultato è una song destinata ad essere riposta con cura e gelosia nei cuori dei fans. E cosa dire poi di un brano come 1000 Eyes, che pur passando da tempi dispari e stacchi tecnici impressionanti, non dimentica il punto fondamentale, evitando di scadere nella tecnicaglia; questo è il brano che sempre mi verrà in mente quando qualcuno nominerà questo album, perchè qui vi è racchiusa l'anima di questo loro episodio musicale. La tecnica al servizio di una musica che si adatta senza smagliature ai loro testi, parole che ci descrivono in maniera visionaria il mondo come Chuck lo vedeva: in declino. Ecco dunque arrivare le fobie di Zero Tolerance, la dissacrante crudezza di Empty Words, e così via per 9 lunghi episodi. In parte Symbolic rivela il controsenso dell'affermare che i Death siano stati da ispiratori ad altri gruppi: ascoltando integralmente l'album risulta fin troppo difficile credere che qualcuno possa plausibilmente sperare di ripetere quel che è stato fatto. Capitolo totalmente a sè stante nella storia del Death metal (anzi, del metal in generale), questa band ha con il suo penultimo lavoro innalzato il proprio nome ad un livello ancora più alto, sebbene potesse sembrare impossibile. Solo quando avrete ascoltato e spremuto fino in fondo questo album vi sarà palesemente chiaro cosa significhi attribuire il titolo di 'Classico' ad un cd, perchè questo era il destino di questa ennesima perla targata DEATH.
THE SOUND OF PERSEVERANCE

DEATH [DEATH METAL], 1998
Tra le band madri di quel genere che porta il loro stesso nome, i Death sono stati tra gli alfieri dell'ondata di metal estremo mastodonticamente sviluppatasi negli Stati Uniti di fine anni '80 grazie soprattutto ad acts storici quali Atheist e Cynic, contemporanei alla band capitanata dal leggendario Chuck Schuldiner. 'The Sound Of Perseverance' è stato l'ultimo lavoro prodotto dal gruppo americano e, dopo i grandi capolavori 'Scream Bloody Gore', 'Symbolic' e 'Individual Tought Pattern's, questa finale release rappresenta da una parte l'atto che ufficialmente incorona Schuldiner come padrone assoluto del death tecnico americano, mentre dall'altra l'opera che spaccherà spesso e volentieri il pubblico estremo internazionale. 'The Sound Of Perseverance' è il disco più discusso della carriera dei Death e quello su cui si sono spese più parole: allontanamento dal death delle origini? Avvicinamento al più vasto pubblico hard-heavy metal? Chiusura della parabola o vetta compositiva assoluta? L'ultimo lavoro di Schuldiner ha infiammato la vasta platea metal mondiale per anni, senza aver mai effettivamente trovato un punto di incontro tra i nostalgici del primo periodo e gli ascoltatori più heavy-oriented. The Sound Of Perseverance rimane in ogni caso un mix devastante di death, thrash e di puro heavy metal: con Richard Christy alla batteria e la new entry Shannon Hamm a supportare Chuck alla chitarra, la formazione venne completamente rivoluzionata, altro aspetto che contribuisce ad introdurre il notevole distacco stilistico che separa il disco dai precedenti, immortali capolavori. Anche in questo caso però i grandi gioielli non mancano, ed è per questo che giungere ad una valutazione complessiva di TSOP risulta essere estremamente difficoltoso, soprattutto se si mette il disco in relazione con le vecchie release; ma quando canzoni come 'Scavenger Of Human Sorrow' fanno il loro ingresso sulle scene, tutto per un attimo viene azzerato, annichilito e bruciato dalla furia esecutiva ed atmosferica di cui la musica dei Death è violentemente permeata: sfuriate ritmiche, aperture melodiche da brivido, inabissamenti in un heavy death granitico ma non privo di un certo spiritualismo. 'Bite The Pain' prosegue sulle stesse coordinate, emozionando l'ascoltatore dai suoi primi, decadenti e meravigliosi respiri fino all'agghiacciante conclusione che lascia rotolare un tappeto rosso per l'intro di basso di Scott Clendenin che da il via a 'Spirit Crusher', tra i brani più tecnici e sofisticati del lotto. Sullo stesso stile ci viene presentata la successiva 'Story To Tell', leggeremente sottotono rispetto alle precedenti, al contrario della seguente 'Flesh And The Power It Holds' dove Schuldiner dà il meglio di se, sciorinando stile e ricercatezza armonica sia sotto il profilo compositivo sia sotto quello solistico chitarristico, senza mai far venir meno quell'atmosfera claustrofobica e cupa, violenza sonora al servizio della disperazione più desolante di fronte all'inesorabile squallore dell'essere. Si arriva così all'eterno capolavoro 'Voice Of The Soul,' la testimonianza più toccante, struggente e riflessiva di ciò che i Death ci hanno lasciato con la loro musica: chitarre acustiche ed elettriche si accompagnano in un atmosfera densa e stracolma di malinconia, delineata da melodie dannatamente tristi e decadenti; un capolavoro di riflessione emotiva reso attraverso un gusto compositivo come al solito fine ed equilibrato. Ma è presto per dire che l'aggressività e la violenza più profonde siano già scomparse, perchè 'To Forgive Is To Suffer', tra gli episodi più emozionanti del disco, deve ancora esporre il suo distruttivo repertorio di tecnicismo strumentale, di atmosfere profane e di innalzamenti melodici da infarto [l'assolo centrale di Schuldiner è un qualcosa che spezza in due corpo e spirito], come anche la successiva 'A Moment Of Clarity' che con la solita eleganza alterna rabbia profonda a stacchi melodici di grande impatto. Si giunge così al termine del disco con la cover della storica 'Painkiller'dei Judas Priest, canzone che, coverizzata e idolatrata in tutte le parti del mondo, ha trovato nei Death gli unici e i soli in grado di rielaborarne splendidamente l'atmosfera contorta e granitica. Così si conclude 'The Sound Of Perseverance', l'ultimo agghiacciante urlo di Chuck Schuldiner, l'ultima grande testimonianza del suo genio. Lontano dai precedenti capolavori per stile, organicità e atmosfera, The Sound Of Perseverance è un disco dall'impatto devastante, un disco cui la ricerca melodica non viene più espressa mediante il death tetro e cavernoso di Symbolic e Individual Thought Patterns, bensì attraverso la 'pulita' miscela sonora di riferimenti heavy metal che ne smussano ovviamente la portata atmosferica, arricchendone però l'impatto e il vigore sonoro stesso. All'ascoltatore va il giudizio ultimo riguardo una delle opere più discusse, amate e blasonate del metal estremo: l'unica cosa che resta, al di là del tempo che tristemente scorre, è il ricordo, mai così indelebile e impresso nella mente, di un artista unico e inimitabile che ha fatto la storia di un genere, marchiando a fuoco il cuore di un'intera generazione col suo nome. Addio Chuck.