BORN AGAIN

BLACK SABBATH [1983], HARDROCK
Black Sabbath in crisi e rivolta:l’abbandono della coppia Dio/Appice in seguito alla disputa per il disco Live Evil ha portato il mastermind dei Black Sabbath ad interrogarsi sul futuro della band e che direzione seguire. Senza il motore ritmico [e con Geezer Butler all’ultima prova in studio con i Sabbaath prima degli anni 90] e, soprattutto, senza il vocalist che aveva portato i Black Sabbath al di fuori della secca creativa della fine degli anni ’70 i quattro inglesi erano l’equivalente di una grandissima armata senza le armi. La soluzione ritmica viene trovata nel rientrante Bill Ward, ma è il singer il vero problema e questo viene risolto facendo ubriacare fino all’incoscienza Ian Gillan dei Deep Purple e mettendolo sotto contratto. Questa, che poteva essere considerata la formazione del secolo [le capacità di screamer di Gillan unite alle tonalità plumbee di Iommi&Co], si presenta come uno dei più grossi fallimenti umani prima che musicali. L’incompatibilità fra due personalità forti come Iommi e Gillan ha causato più di una scintilla e il susseguente tour ha portato in giro un carrozzone spettacolare ma totalmente impraticabile. Ma parliamo del disco. Introdotto al pubblico da una cover art totalmente discutibile, rappresentante un bambino posseduto, che ha causato diverse polemiche sia per la mancanza di originalità sia per i colori shocking, Born Again ha un mixing a dir poco stravagante: sound cavernoso [basso iper-presente] e privo della usuale dinamica, il risultato è qualcosa di sporco, brutale, pericoloso e spesso non propriamente un piacere da ascoltare. Il disco parte subito aggressivo, con una graffiante Thrashed, resoconto di una nottata di bisbocce, per poi rallentare subito con il primo dei due filler strumentali, Stonehange. Disturbing The Priest è altrettanto graffiante e spaventosa [si senta la folle introduzione e il riffing spezzettato e molto moderno per i tempi], ma possiede una buona dose di melodia al suo interno. Il secondo filler, The Dark, lancia La canzone del disco: Zero The Hero. Traccia pesante, cadenzata, in costante monolitico mid-tempo e con Gillan che cantilena le strofe per poi finire nell’anthemico chorus. Il riff è muscolare e anche se il mixing tarpa leggermente le ali alla canzone, non ha minimamente minato la presa di questa sequenza di note. Gillan canta come sa fare, con meno urla e melodie che caratterizzeranno le sue produzioni con i Deep Purple, ma la commistione Iommi-Gillan non funziona a pieno regime. Il cantante sembra sempre un elemento estraneo. La seconda meta del disco invece parte con la ficcante Digital Bitch. La maestosa e melodica Born Again, apre il trittico finale, e le sue melodie sono quanto di più piacevole ascoltato in questo disco. La groovy Hot Line fa da pista di lancio per l’heavy-blues di Keep It Warm, in cui Gillan dispiega ottime melodie vocali su una base, a dir il vero, alquanto discreta. Born Again è l’ultimo disco con Gillan alla voce, testimonianza di un incontro/scontro fra due delle formazioni principe della stagione d’oro dell’hard rock britannico. Da questo momento in avanti Ian ritornerà in seno ai suoi Deep Purple e i Sabbath perdono leggermente la bussola con una serie di musicisti a contratto e il solo Iommi a tenere le redini del gruppo. Blackbloodysabbath.it

A TWIST IN THE MYTH
BLIND GUARDIAN [2006], POWER METAL
E chi li ferma più questi? In un cammino intrapreso ormai da qualche anno a questa parte questa band sta bruciando le tappe, muovendosi inesorabilmente verso un rinnovamento che sembra non avere una fine. Stiamo parlando ovviamente dei ‘crucchi’ Blind Guardian, che benedicono questa stagione musicale con 'A Twist In The Myth', un lavoro che come da tradizione non mancherà di far parlare di sé, nel bene e nel male. Le carte sono state scoperte, i dissidenti sono stati allontanati [il drummer Thomen Stauch, da sempre contrario alla piega che la musica dei nostri stava prendendo da 'Nightfall in Middle Earth' in poi], gli obiettivi sono stati segnati, e così avanti senza guardare in faccia a nessuno. Per chi scrive, questo album rappresentava la cosiddetta prova del nove, dopo un lavoro rischiosamente audace come 'A Night At The Opera'. E possiamo subito affermare che le attese non sono state completamente ripagate. L’impressione iniziale che abbiamo è che nonostante i nostri puntino come non mai sulle chitarre [i riff prima di tutto], e nonostante le stratificazioni siano ridotte notevolmente, alla fine quello che manca sono le idee davvero vincenti. Un sound più crudo, sicuramente, più violento, che non manca di impreziosire pezzi da novanta come 'Otherland', 'Straight Through The Mirror', il celebre singolo 'Fly', ma che non sembra dare i suoi frutti sulla lunga distanza. C’è anche da dire che i nostri con una abile capacità di mestiere si rimettono in carreggiata citando 'Nightfall in Middle Earth' nel pezzo 'Turn The Page', pescando il ritornello di 'Under The Ice' nell’opener 'This Will Never End' e ispirandosi al classico 'A Past And Future Secret' per comporre la comunque valida 'Skalds & Shadows'. La strada sembra essere quella giusta, quella della varietà sempre e comunque, così perfetta sulla carta e così spinosa nella realtà. Non avete idea di quanto sia difficile trovare l’errore tecnico qui dentro, ma potete giurarci che l’ingranaggio rotto c’è eccome. Dopo aver ascoltato (capo)lavori come 'Nightfall' o 'Imaginations From The Other Side' era facile premere play una, cento, mille volte. Con 'A Twist In The Myth' la cosa non è così evidente, e quando parliamo di gruppi grossi come i Blind Guardian la cosa deve far riflettere. Un album nel complesso buono, quindi, ben al di sotto della possibilità dei 'bards' e un filino sbrigativo negli arrangiamenti, che farà impazzire chi ha amato 'A Night At The Opera' e che farà storcere ancora di più il naso a chi della band ha amato la prima versione, quella con Hansi al basso, per intenderci. Come si evolverà il mito? Da Metalitalia.com
MOB RULES

BLACK SABBATH [1981], HEAVY METAL
'Mob Rules' esce nel 1981, un anno dopo 'Heaven And Hell' e come prosecuzione del lavoro del disco precedente vede ancora la voce di Ronnie James Dio a scaldare con una tecnica sopraffina, portando un po' dell'esperienza dei Rainbow. Da sottolineare il cambio di formazione alla batteria: Vinnie Appice sostituisce Bill Ward dietro le pelli per motivi di salute. La sostituzione del batterista non abbassa il livello compositivo della band e l'accoppiata Dio-Iommi appare parecchio affiatata, cosa che verrà poi smentita dopo l'uscita del 'Live Evil', uno dei più bei live dei Sabbath che però vedrà l'allontanamento del singer e segnerà un lungo momento di cambi di formazione. Che si tratti del proseguimento dello stile già ci viene anticipato dal primo pezzo del disco: 'Turn Up The Night'. Dal riff veloce, questo brano è una fotografia del periodo storico dell'Heavy Metal, nel quale si configura il disco, nei primi ottanta, e come 'Neon Knights' è energica e solida, lontana dalle atmosfere dei precedenti Sabs, molto più hard rock nel più classico degli stili. Con la lunga ed oscura 'Sign Of The Southern Cross' siamo molto più vicini allo stile lento dei vecchi Sabbath, con una prestazione sontuosa di Dio al microfono. Maestosa, lunga ma non stancante, la song esalta bassi e batteria. La strumentale 'E5150' ci porta lontano, perfettamente integrata verso la title track 'The Mob Rules', che parte con un violento riff hard rock da brividi. Dio incattivito all'inverosimile e una parte ritmica perfetta: il pezzo è una cavalcata crescente che resterà tra i pezzi migliori mai scritti dalla band. E’ molto quadrata invece 'Country Girl'. Suoni più ricercati e pesanti, ci fanno ritornare in mente i primi lavori della band. 'Slippin’ Away' è forse il pezzo meno riuscito del disco, anche se è comunque di livello altissimo. In alcune parti ha dei riferimenti ai Deep Purple, mentre nell'assolo Iommi va alla ricerca di suoni più oscuri. Ma il disco non si abbassa di livello per troppo tempo, e in seguito arriva 'Falling Of The Edge Of The World', song che crea una fantastica atmosfera esaltando la voce di Dio, seguitando con una feroce accelerazione che dona potenza ed epicità. 'Over And Over' ci dona emozioni allo stato puro invece. Ancora Dio in gran forma, canta su un tempo classico dei lenti Black Sabbath. La song si sviluppa con un lungo solo di Iommi, restando una delle migliori dell'intera opera. In un pezzo come questo infatti possiamo denotare lo sviluppo delle nuove sonorità della band. E' la degna conclusione di un disco stupendo: come 'Heaven And Hell', è ingiusto considerare questo disco come inferiore agli altri dei Black Sabbath perchè non vi è Ozzy Osbourne. Potrebbe essere sacrilego preferirlo a pilastri come 'Master Of Reality', però la novità portata da Dio in questi dischi, crea nuove influenze, vicine ad esempio ai Rainbow o addirittura ai Deep Purple. Tecnicamente comunque a livello del precedente, paga un piccolo prezzo di creatività. Disco comunque da avere. Metallus.it
HEAVEN AND HELL

BLACK SABBATH [1980], HEAVY METAL
Heaven and Hell, uscito nel 1980, è il primo album dei Black Sabbath senza la loro star assoluta, Ozzy Osbourne. Dopo 10 anni il sodalizio era finito e al termine del tour di Never Say Die, Ozzy lasciava in maniera definitiva e turbolenta i Black Sabbath, chiudendo il più importante capitolo della storia della band da molti indicata come creatrice dell'heavy. Prendendo spunto dal motto che dava il titolo all'ultimo album, i Sabbath non si perdono d'animo e arruolano Ronnie James Dio, uscito da poco dai Rainbow di Ritchie Blackmore; l'unione è fruttifera ed Heaven and Hell ne è l'ottimo risultato. Dio porta nei Sabbath il suo lato mistico/fantasy che non poteva più esplorare nei Rainbow, visto che Blackmore aveva puntato su sonorità più AOR e commerciali; la musica dei Sabbath si adatta al nuovo cantante e al suo stile liricista, e ne esce fuori un album roccioso, compatto, solido e convicente, che ricorda molto come stile quello della futura carriera solista di Ronnie. Esso permette ai Black Sabbath di abbandonare il suo tipico sulfureo sound doom per virare su un più classicheggiante heavy metal. La prima canzone scritta dalla nuova line up è una delle più famose del gruppo e senz'altro tra le più belle: 'Children of the Sea' è una grande semi-ballata in cui Dio mette in mostra le sue doti canore e la band dimostra che non c'è bisogno di Ozzy nel gruppo per scrivere pezzi memorabili. L'altro colosso dell'album è la title track, ovvero la celeberrima 'Heaven and Hell', un mid-tempo cadenzato e ipnotizzante, sostenuto da una semplice ma effettiva linea di basso, che esplode nel finale per poi sfociare in un outro acustico e dal sapore medievale. Questi sono i due brani dell'album che passano alla storia, ma i pezzi di qualità sono molti altri; degne di nota sono infatti la veloce 'Neon Knights', che apre il disco, e brani come 'Wishing Well' e 'Die Young' [più cadenzato il primo, più veloce e coinvolgente il secondo] non hanno nulla da invidiare a molte canzoni dell'era di Osbourne. Il resto dei brani è nella media, ma nessuna canzone è mediocre o usata come riempinastro; l'album risulta un lavoro convincente e anche importante nel mantenere al vertice il gruppo. Ovvio che dopo 10 anni di Ozzy Osbourne il cambiamento sarebbe stato visto con occhi storti da molti fans, ma la classe vocale di Dio non è da discutere ed è la sua arma principale nella 'lotta' contro il fantasma di Ozzy. Insomma, i Black Sabbath 'veri' saranno anche quelli della formazione Osbourne/Iommi/Butler/Ward, ma Heaven and Hell è un album dannatamente bello e convincente come la band non faceva da qualche anno e come non ne avrebbe fatti per molti anni ancora. Assolutamente da sentire per qualsiasi fan di Dio.
NEVER SAY DIE

BLACK SABBATH [1978], HARDROCK
Recensire un album dei Black Sabbath è come cercare di descrivere un qualcosa di magnifico facendo molta difficoltà a trovare parole adeguate per descriverne l'essenza. I Black Sabbath, infatti, sono qualcosa che va oltre l'essere band hard rock o heavy metal, a seconda dei punti di vista. Sono stati un simbolo, una conquista per la musica, una sfida per i musicisti che si sono avvicendati nel corso degli anni alla corte di Tony Iommy. Lo sono stati fin dal loro primo, bellissimo, album di debutto segnando uno spartiacque definitivo tra quello che l'hard rock era stato e quello che heavy metal sarebbe divenuto (grazie ai successivi albums). La line up 'storica', incontro di personalità d'elevato spessore artistico, ha significato così tanto per il panorama hard'n'heavy che ancora oggi è stesa sulla band un aurea di quasi religioso ossequio: dopo questo disco Ozzy Osbourne lascerà il microfono del combo inglese per insanabili contrasti con Iommi e compagni, che si troveranno dunque in un periodo di crisi e caos che si concluderà solo con l'arrivo in formazione di Ronnie James Dio. Il disco che qui recensiamo è probabilmente quello meno capito da alcuni, meno 'consumato' da altri, meno apprezzato forse dai più, e segue a quel 'Technical Ecstasy' altrettanto contestato dai fans che avevano magnificato le prim sei, leggendarie, uscite della band. Le ragioni di questa diffusa perplessità nei confronti di questo album possono essere ascritte a più motivi sia di natura compositiva sia di tecnica strumentale: infatti il disco si discosta in maniera evidente dai bellissimi lavori precedenti, spiazzando notevolmente l'ascoltatore fin dalle prime song. L'apertura è affidata a 'Never say die', la title track appunto. La song presenta un ritmo sostenuto ed un riff molto accattivante incentrato su di una melodia semplice e orecchiabile allo stesso tempo. Si nota subito al primo ascolto l'intenzione principale della band, ovvero quella di discostarsi dalle sonorità dei precedenti lavori per approcciarsi al loro sound in maniera più diretta possibile, con riffs melodici e arrangiamenti in qualche modo più articolati. In effetti il tentativo di costruire un nuovo sound per la band , all'ascolto di questa prima track, sembra centrato. La seguente 'Johnny Blade' riposiziona le coordinate sonore della band sui lidi cari alla band delle precedenti release, senza per questo rinunciare al tentativo di 'modernizzare' il sound primordiale del combo. Il risultato è un buon brano che alterna fasi più 'black sabbath style' a fasi di più accessibile impostazione musicale. La voce è sempre quella di Ozzy, ogni aggettivo di descrizione della prestazione canora del 'madman' sarebbe superflua. 'Junior's eyes' , terza song, si districa attraverso soluzioni armoniche delle più varie, il tutto trovando sintesi ottimale nel refrain molto accattivante e ben costruito. Molto bravo Iommi ad arricchire con mai supeflue armonizzazioni la struttura della track, donandole ulteriore godibilità. La seguente 'A hard Road' è una song con ritmiche leggermente sostenute, con un riff sempre melodico e come al solito arricchito dalle puntuali incursioni elettriche di Iommi che anche in questo caso risultano essenziali nell'impianto complessivo della song. L'unico difetto del brano è forse l'eccessiva ripetizione del refrain principale, lasciando il dubbio di un lavoro incompiuto da parte della band in fase di composizione. Con la seguente 'Shock Wave' abbiamo un chiaro esempio di come la band non rinunci alla propria specificità, al proprio modo di approcciarsi alla musica hard rock, sfoggiando una composizione che sarebbe potuta essere scritta in uno qualsiasi dei precedenti dischi. La sesta traccia, 'Air Dance', è un pezzo molto particolare e rappresenta un altro momento di distacco dalle classiche sonorità del combo, avventurandosi in riff prima leggermente sostenuti per poi lasciar spazio a sonorità che spaziano dall'hardrock a situazioni vagamente jazz o addirittura 'ambient'. La track è impreziosita da discrete incursioni pianistiche, mai superflue e spesso ben inserite nella struttura del pezzo. Il disco ormai viaggia su queste coordinate musicali, lo dimostra infatti la seguente 'Over to you' che sembra riprendere il discorso musicale accennato dalla precedente song il tutto come al solito in un alternarsi, elegantemente arrangiato, di atmosfere. Il disco volge al termine e i Black Sabbath, con la penultima 'Breakout', provano ad osare nella loro ricerca stilistica e strumentale ricorrendo all'ausilio di una sezione fiati. La song in questione è strumentale ed è incentrata su ritmiche molto cadenzate, un riffing cupo e quasi claustofobico e appunto una sezione fiati (composta da trombe, tromboni e un sax tenore) che, paradossalmente, ne accentuano la pesantezza. In chiusura, 'Swinging the chainì (con alla voce Bill Ward) presenta un insolito incontro tra sonorità tipiche del combo britannico, costruite ancora una volta su riff cupi e minacciosi, e ancora una sezione fiati. In conclusione questo 'Never say die' è un disco particolare, probabilmente il meno assimilabile della band, ma che rappresenta un timido tentativo di sperimentazione non sempre degnamente approfondito. L'acquisto è consigliato, ma non è d'obbligo. Truemetal.it


TECHNICAL ECSTASY

BLACK SABBATH [1976], HARDROCK
Disco molto piacevole, arioso e dal retrogusto vagamente psichedelico questo 'Technical Ecstasy', uscito nel 1976 e ingiustamente bollato come uno dei picchi bassi della band in quanto caratterizzato da una svolta pop-rock. 'Back Street Kids' apre il disco alla grande: si tratta di un rockettino scanzonatissimo e orecchiabile, con quei sintetizzatori che si integrano alla grande con la chitarra di Iommi. 'You Won't Change Me' è forse ancora meglio: l'intro doomeggiante richiama i primi Black Sabbath, per poi sfociare in un continuo gioco a rimbalzo tra chitarra e tastiere che da a questa canzone l'intensità e la forza di un inno. 'It's Alright' è un po' pacchiana, ma ricorda 'Lazing On A Sunday Afternoon' e 'Good Old Fashioned Lover Boy' dei Queen. Positiva la prova di Bill Ward come cantante dei Black Sabbath. 'Gypsy' ha una certa valenza autoironica: il testo inquietante e misterioso richiama i primi Sabbath, ma il ritmo della canzone è molto allegro e piacevole. Il livello si mantiene alto con 'All Moving Parts (Stand Still)' dove il basso di Butler e la chitarra di Iommi duettano alla grande in un pezzo molto catchy e vagamente sarcastico, come quasi tutto il disco. Intro pseudo-doom per 'Rock n'Roll Doctor' in cui spicca il ritornello con effetto bomba ad orologeria. Carino, ma forse è il pezzo più banale dell'album. 'She's Gone' è la ballata dell'album: è una canzone molto bella e sofferta, con un tocco in più dato dall'intreccio tra violini e chitarre acustiche. Chiude il disco 'Dirty Women', canzone di sette minuti dal ritmo incalzante che ricorda vagamente 'Fairies Wear Boots'. Qui i sintetizzatori sono ridotti al minimo e torna a farla da padrone la sola chitarra di Iommi, che si cimenta in un lungo assolo. 'Technical Ecstasy' è un po' il 'Virtual XI' dei Black Sabbath: un disco coraggioso e innovatore che purtroppo non è stato capito, e stroncarlo significa avere ben poca sensibilità musicale. Un grave difetto del disco è sicuramente quella copertina oscena [eh, già, ancora più oscena di quelle di 'Master Of Reality', 'Sabotage' e 'Born Again'] che dovrebbe rappresentare due robot che fanno sesso e che invece sembra più una saliera e un portacoltelli su una scala mobile.
A NIGHT AT THE OPERA

BLIND GUARDIAN [2002], POWER METAL
Ogni volta che esce un disco dei Blind Guardian, è inutile negarlo, si vengono a creare delle grandissime aspettative intorno ad esso, e con esse inevitabilmente interminabili discussioni tra chi sostiene che i Blind Guardian rimangono il miglior gruppo del pianeta e quelli che 'ma i Blind Guardian di una volta erano tutta un’altra cosa'. Comunque vadano le cose, ogni disco dei quattro bardi tedechi si colloca puntualmente in vetta alle polls di fine anno. I Blind Guardian, seguendo la strada intrapresa con decisione da 'Nightfall in Middle Earth', hanno partorito un lavoro mastodontico, di una complessità incredibile per songwriting, arrangiamenti e produzione. I mesi chiusi in studio, merito di budgets di registrazione impensabili per quasi tutti gli altri gruppi metal ma anche di una maniacale cura per ogni dettaglio, si sentono in tutto il corso del disco, e pezzi come l’opener 'Precious Jerusalem', che sette anni fa avrebbero suonato come 'Born in the Mourning Hall', assumono l’aspetto di vere mini-opere, tanto da porre seri interrogativi sulla loro riproducibilità dal vivo. Il disco risulta lontano dalla produzione pesantissima e veloce alla quale la band tedesca ci aveva abituato in passato, e va ad esplorare sentieri sinfonici, orchestrali, solenni e dalla classe elegante, come il titolo del platter lascia intuire. I nuovi pezzi, come già detto, non presentano il fianco critiche di sorta dal punto di vista qualitativo, anzi: canzoni come la già citata 'Precious Jerusalem', 'Under the Ice', 'Sadly Sings Destiny' o la suite finale 'And Then There Was Silence' si vanno ad inserire tra i brani migliori dei quattro di Krefeld, ma, anche se in misura minore rispetto a 'Nightfall', questo disco pone seri problemi di ascoltabilità: in altre parole, terminato di sentirlo una prima volta, molti ne resteranno colpiti, salvo poi lasciare il disco a prendere la polvere, a favore di lavori meno perfetti esteticamente, ma decisamente più coinvolgenti. In ogni caso, i Blind Guardian hanno sfornato un altro lavoro di grandissima caratura, che sarà certamente apprezzato dai fans (molti) cui è piaciuto Nightafall, mentre potrebbe lasciare un po’ di amaro in bocca a chi proprio quel disco non l’ha digerito. Da Kronic.it
NIGHTFALL IN MIDDLE EARTH

BLIND GUARDIAN [1998], POWER METAL
Con questo album i Blind Guardian vengono consacrati definitivamente nell'Olimpo dell'heavy metal, perchè piazzare tre dischi super uno dietro l'altro come 'Somewhere Far Beyond', 'Imaginations From The Other Side' e, appunto, 'Nightfall In Middle-Earth' non è certo impresa facile. 'Il cristallo era, per i Silmaril, null'altro che ciò che il corpo è per i Figli di Ilùvatar: la dimora del suo fuoco interiore, che è in esso e insieme in ogni parte di esso, e che ne costituisce la vita.' Simile è ciò che rappresenta il Silmarillion per i Blind Guardian in 'Nightfall in Middle-Earth': un qualcosa a cui dare vita con musica che vi si sposi alla perfezione, tanto da rendere quasi immediato il collegamento Blind Guardian-Tolkien, nel bene e nel male. Era il 1998 e la scena del metal melodico non era ancora completamente inflazionata, anche se cominciava a dare i primi segni di cedimento; ed erano passati tre lunghi anni per i Blind Guardian dal loro ultimo lavoro in studio quando uscì questo 'Nightfall In Middle-Earth', un'uscita che segnò pesantemente la scena e anche la carriera dei quattro tedeschi. Il disco segna anche la completa evoluzione del loro sound, dall'iniziale e grezzo speed degli esordi a un metal che riesce ad essere diretto e aggressivo ma anche maestoso e melodico, intriso di partiture sinfoniche, tecnica eclettica e sopraffina, eleganza raffinata e ricercata con perizia da veri Maestri. Se cercate velocità e adrenalina, quale miglior opener di 'Into The Storm' potrà fare al caso vostro? L'incedere in levare della strofa, il mood vagamente oscuro che aleggia su tutto il disco e il possente chorus lo hanno fatto diventare uno dei classici dei Blind, e sarebbe impensabile un concerto senza. Ma tutto il disco è un concentrato di potenza, melodia, epicità: 'Nightfall', ad esempio, mette i brividi addosso, tanto è forte il suo potere evocativo, mentre 'The Curse of Feanor' riesce perfettamente a tradurre in musica tutta la rabbia e l'odio che il principe degli Eldar, Feanor, ha messo nel suo Giuramento. Ma anche gli intermezzi, alle volte musicali e alle volte semplicemente parlati, che collegano quasi tutte le tracce di questa opera riescono ad appassionare e a tenere in costante tensione l'ascoltatore. Ascoltatore che, dopo la sofferta e malinconica 'Blood Tears', viene letteralmente stordito dalla bellezza, dalla potenza e dall'energia delle note di 'Mirror Mirror', sicuramente a oggi il pezzo più famoso dei Blind Guardian e, probabilmente, anche il più bello. Sin dopo il primo impatto è impossibile non riascoltarla ancora ed ancora, sia singolarmente che in mezzo al concept. Un brano che da solo basterebbe a rendere buono un disco zeppo di mediocrità, ma che in un contesto quale quello di 'Nightfall In Middle-Earth' risulta essere una gemma, un Silmaril incastonato in una splendida corona. E il disco prosegue, prima con la nuova sofferenza di 'Noldor' e quindi con la battagliera ed epica 'Time Stands Still [At The Iron Hill]', passando per pezzi malinconici ['Thorn'], e lente, struggenti partiture di piano, su cui Hansi Kursch abbandona il suo classico timbro di cartavetro per accompagnare più delicatamente la melodia ['The Eldar']. Ma prima del finale, di nuovo tanta rabbia, velocità, tanto metal diretto e con pochi fronzoli, con 'When Sorrow Sang', canzone che andrebbe fatta sentire a chi dice che NIME è un album troppo moscio. E quindi, in mezzo a ben tre mini-tracce, la conclusiva, epica e cadenzata 'A Dark Passage', che suggella un disco perfetto dal primo all'ultimo secondo. Un disco che si chiama fuori dalle classiche gare di 'Qual è il miglior disco del gruppo?'. E' qualcosa di più completo, qualcosa che fonde davvero alla perfezione il lavoro musicale e quello lirico. Un disco da avere, per chiunque.

IMAGINATIONS FROM THE OTHER SIDES

BLIND GUARDIAN [1995], POWER METAL
Anno di grazia 1995; i Blind Guardian stavano facendo parlare gli appassionati del power metal già da diversi anni, avendo ormai sul groppone la bellezza di 5 album, l'uno il giusto sviluppo e progresso del precedente, un crescendo di idee innovative e di tecnica musicale pura. 'Battalions of Fear', 'Follow the Blind', 'Tales from the Twilight World', 'Somewhere far Beyond', oltre al live 'Tokyo Tales' erano serviti ad imporre al mondo un modo nuovo di concepire la musica, cementando uno zoccolo duro di fans affezionati come forse mai era accaduto, spaziando non solo tra i puri seguaci della musica metal ma anche tra tutti coloro che amavano un determinato mondo fantasy a livello artistico, letterario, culturale. I tempi della trilogia del 'Signore degli Anelli', de 'Le Cronache di Narnja' e dei tanti altri film in grado di portare, grazie alle tecniche cinematrografiche più avanzate, milioni di persone nelle sale cinematografiche erano ancora lontani, eppure i Blind Guardian riuscirono a far divenire protagonista della loro musica questo mondo. E lo fecero in modo assolutamente innovativo, cercando cioè di creare con le loro composizioni, e non soltanto con i testi, un'atmosfera il più possibile legata e riconducibile a quell'universo magico fatto di elfi, condottieri, cavalieri, ma soprattutto di onore, battaglie e mondi ancestrali popolati dalle più svariate creature. Il tutto senza cadere nel banale e nel ridicolo. Tutto questo preambolo per descrivere in che clima di attesa uscì, nel 1995, la pietra miliare del power metal targato Blind Guardian, uno di quei dieci dischi che bisogna avere per potersi definire veri amanti non solo del genere power, ma del metal e forse della musica in generale. E' un album molto più complesso dei precedenti, più melodico e moderno, con un sound estremamente 'corposo'. Con un solo balzo, grazie a nove tracce prive di ogni sbavatura e ognuna con una storia a sè pur essendo legate tutte da alcune caratteristiche peculiari, i Guardian raggiunsero in vetta all'ipotetica piramide del mondo power metal i compatrioti Helloween e Gamma Ray, per costituire un trittico che rese grande un genere fino ad allora non ancora consolidato tra i puristi dell'heavy metal. Che Hansi Kursch sia uno dei più grandi innovatori della scena metal è ormai una certezza: il singer non si limita, come molti colleghi power, a raggiungere vette improponibili con la voce, ma gioca con le corde vocali e gli intrecci con splendidi cori che ancora oggi fanno scuola per creare sonorità in perfetta sintonia con il brano, dal cantato aggressivo e oscuro al picco clean di altissima tonalità. Il tutto ben coaudivato da una produzione splendida, puntuale e presente [quella di Flemming Rasmussen agli Sweet Silence Studios di Copenaghen, Danimarca] e da tre compagni di viaggio che con i rispettivi strumenti sanno prendersi il giusto spazio e mostrare le proprie qualità, senza però mai risultare fuori posto o troppo invadenti. Rispetto ai dischi precedenti, i Blind Guardian mantengono la compattezza tellurica del sound ma sfoderano una serie di tracce più ricche di cambi di tempo e ritornelli in chorus, cimentandosi solo in alcune porzioni strutturali nei celebri attacchi frontali a briglia sciolta da orgasmo immediato: i pezzi sono più complessi e ragionati, il coinvolgimento cresce passo dopo passo e non esplode immediato, se non dinnanzi a certi riff stratosferici; le chitarre colmano la sete di acciaio con folgoranti assoli ultramelodici a perdifiato, immancabili corse in full immersion nell'armonia sonora fluida e travolgente tipica del power e, ancor prima, dell'heavy metal levigato anni or sono alla scuola degli Iron Maiden. Il sound concepito dai Bardi è stratificato e polidimensionale, poggia su intricatetrame sulle sei corde supportate da cambi di tempo imprevedibili, variazioni d'atmosfera completate da tastiere e chitarre acustiche, varie sonorità mescolate in maniera splendida e omogenea anche nell'arco della stessa traccia: così facendo, i tedeschi danno luce ad una vera opera di Heavy Metal potente, roccioso ma raffinato e suonato con una perizia tecnica magistrale. I riferimenti al mondo fantasy sono tanti e variegati, sintomo di profonda passione e conoscenza di tale letteratura da parte del buon Hansi, e variano tra Il mago di Oz, Peter Pan, Il signore degli anelli, Alice nel paese delle meraviglie, La spada nella roccia, Le cronache di Narnia e il Ciclo Bretone di Terence Hanbury White. Si parte con il botto, la title track 'Imaginations From the Other Side', che apre il disco con un alito di vento burrascoso e un tocco di tastiere cadenzato su batteria pesante e triste, che sarà una delle due campane su cui si giocherà il brano, sempre presente sul ritornello, cui si interporrà uno speed indiavolato, in cui la voce passa da dolce e pulita ad aggressiva e altissima, accompagnata come per tutta la durata del disco dagli immancabili cori di supporto. Un capolavoro del power, che trasuda epicità da ogni singola nota. Importante rimarcare l'utilizzo di sinth ed effetti in tutto l'album, un utilizzo che diverrà poi regola per molte band che a tale genere si dedicano ma fino ad allora scelta criticata poichè accusata di voler coprire i reali valori dei musicisti. 'I'm Alive' trae spunto da 'Il Ciclo di Death Gate' e presenta una struttura assolutamente più riconducibile al power teutonico, con velocità formidabile [ottimo il lavoro di tutta la band], sorprendendo l'ascoltatore soprattutto per uno stacco con cambio di tempo e timbro di voce a metà della song, ma proseguendo per il resto con brevissime pause al suono di chitarra acustica e la struttura rapidissima ma mai caotica descritta in precedenza, concludendosi su un ottimo 'asfalto' di batteria al grido' I'm Alive!'. La grandezza dell'album e di questa band si misura però non solo nello speed, ma anche e soprattutto nei lenti e nelle ballad, e 'A Past And Future Secret' lo dimostra in tutta la sua interezza. Non la classica scontata song lenta di rottura ma un brano in cui si immagina un discorso di Merlino sulla morte di Artù e sui suoi possibili sbocchi per il futuro, con l'uso solo di chitarre acustiche, sorrette ottimamente da strumenti classici e tastiere, e da un drumming improntato al tamburo da battaglia, con meravigliosi echi medievaleggianti. Dopo aver rifiatato ci si riprende dalla commozione con una scarica di adrenalina, scandita naturalmente dalla potenza devastante e teutonica della sezione batteristica, puntuale e rocciosa come poche: 'The Script For My Requiem' è la folle ricerca del Sacro Graal da parte di Lancillotto, e si trascina ad una velocità notevole fino al ritornello, in cui i cori sorreggono un cantato più cadenzato per poi rituffarsi nel vortice della velocità. Ancora una volta corposo e portentoso il lavoro del drummer, cos' come l'alternanza di ritmi, che rendono tutti i brani lunghi ma assolutamente godibili e attraenti fino alla fine. 'Mordred's Song' tratta di Mordred, un personaggio leggendario della Britannia, conosciuto all'interno del ciclo arturiano come il traditore che combatté Re Artù nella Battaglia di Camlann, dove egli fu ucciso ed Artù ferito gravemente. E' song che gioca su un intreccio di chitarra acustica e elettrica, creando maestosità in un clima quasi di malinconia, a voler rimarcare i tratti della storia del protagonista, spesso associato alla vicenda incestuosa tra Artù e Morgana quale figlio illegittimo del grande re. Pura scuola teutonica nel velocissimo brano 'Born In A Mourning Hall', brano sul fanatismo religioso, spesso definito come unico momento più accostabile ad un power consueto e dunque un po' meno fuori dalle righe. Qualità della musica sempre altissima, giocata tra cambi di ritmo e velocità. Splendido in questo senso l'assolo finale di chitarra. L'ultimo trittico si apre con 'Bright Eyes', uno dei punti più alti di tutta la carriera dei Guardian, con un ritmo più blando nella sua velocità, giocato su cori perfetti, dopo un inizio in cui la voce è comprimaria su un suono di chitarra elettrica che precipita l'ascoltatore nella disperazione, davvero tangibile, del protagonista, ancora una volta Mordred, che ragiona sull'odio provato per Artù, suo padre, e Morgana, per averlo messo al mondo e non riconosciuto poichè frutto di un amore proibito. Il brano presenta un lavoro incredibile sul cantato, che cambia decine di volte tonalità: sospirato, dolce, aggressivo. Che classe e che idee! Mai canzoni avevano caratterizzato una vicenda in maniera così nitida. Si torna a caratteri religiosi importanti su 'Another Holy War ', splendida song che narra della vita di Gesù Cristo: brano velocissimo e altamente adrenalinico, in cui poco presenti sono le tastiere e in cui le tonalità di voce tornano a livelli siderali, per un brano in cui le reali protagoniste sono le spaziali parti di chitarra e batteria. E si finisce con 'And The Story Ends', brano che al contrario del titolo prende spunto da La Storia Infinita, e che si gioca su un coro sempre presente, vagheggiante e alienante, che si sviluppa dopo un breve intro di batteria cavalleresca, che lascia poi spazio alle guitars, per quello che si può definire il finale più adatto per un capolavoro che chiunque dovrebbe potersi regalare ogni qual volta si voglia della buona musica, senza distinzione di genere o sottogenere. I Blind Guardian confezionarono nove perle di infinita bellezza creando uno di quei rarissimi dischi in cui ogni brano è all'altezza e merita attenzione e ascolto. Un capolavoro, e attenzione perchè di recensioni che finiscono in questo modo se ne vedono davvero pochissime, e un motivo ci sarà. da Heavymetal.it

SOMEWHERE FAR BEYOND
BLIND GUARDIAN [1992], POWER METAL
Se si dovesse indicare con precisione l’anno di svolta nella carriera dei Blind Guardian, il momento che impresse per sempre la band tedesca nella mente di tutti gli estimatori del Power Metal, si indicherebbe senza dubbio il 1992. Siamo al cospetto del power metal nella sua forma più elevata, dinnanzi ai Blind Guardian ai loro massimi livelli [o quasi, ma sarebbe come discutere sul sesso degli angeli]. Probabilmente potremmo utilizzare la title track come perfetta sintesi del quarto capitolo in studio del Guardiano Cieco: Questa canzone ha TUTTO quello che si può chiedere ad una canzone power metal: ritmo incalzante, melodia, aggressività, sprazzi folk, chorus da puro delirio, trame di chitarra fluide e travolgenti, un drumming ottimo da parte del grande Thomen. Tutto. Quale altro modo per definire un album che inizia con una canzone come 'Time What Is Time'? Dopo un delicato e sublime arpeggio iniziale si scatena tutta la potenza di un riffing tagliente ed impetuoso, che lascia spazio alla straordinaria voce di Hansi in un testo filosofico e introspettivo basato sulle vicende di Blade Runner; fantastico il ritornello, impossibile non cantarlo a squarciagola. In tema di riffing tirato e potente, ecco arrivare 'Journey Through The Dark', che non abbassa minimamente lo standard qualitativo proposto nella prima traccia. Un inizio di album davvero al fulmicotone, che lascia intuire l'enorme evoluzione perpetuata in seno alla band tedesca; ma è già il tempo di un cambio di atmosfera, che si fa lenta, oscura, malinconica con 'Black Chamber', dalla breve durata ma dalla grande intensità, apripista alla solenne e ricca di pathos 'Theater Of Pain'. L'aria che si respira in 'The Quest For Tanelorn' è invece assolutamente epica, perchè anche qui si mantiene una certa 'oscurità' di fondo, ma il ritornello e soprattutto il bridge sono assolutamente trascinanti. Da segnalare inoltre il meraviglioso assolo suonato da Kai Hansen nel mezzo del brano. Probabilmente non esiste alcun punto debole in questo full length; particolare nota ai testi scritti da Hansi di riflesso alla prematura scomparsa del proprio padre. E ovviamente ne risente anche la musica, che sebbene sia molto rabbiosa e tirata, è pervasa da una spiccata vena malinconica, e non poteva essere altrimenti. L'elemento dominante è, tuttavia, la magia: 'Now we all know, the bards and their songs; when hours have gone by I'll close my eyes'. Chi può resistere dal cantare questi versi, non appena iniziano i magici e melodiosi arpeggi di Andrè e Marcus nella ballad 'The Bard's Song'? Non è possibile descrivere questa canzone: va ascoltata, va cantata, va vissuta. Essa ha però anche una parte più ritmata, ugualmente magica e stupenda, che riprende in alcune parti la melodia portante di 'In The Forest' e ci narra del periglioso viaggio intrapreso dal giovane hobbit Bilbo Baggins, per andare a recuperare il tesoro di un drago assieme ai suoi amici Nani. Sembra ancora quasi una canzone unica ma in realtà 'Piper's Calling' non è il finale di 'The Hobbit' ma è l'intro a suon di cornamuse della title-track, la maestosa, epica e regale 'Somewhere Far Beyond', ampiamente descritta in incipit quale pezzo migliore della tracklist. Sette minuti e mezzo che chiudono alla perfezione un album perfetto, splendidamente impostato tra fantasia, potenza, virtuosismo tecnico e melodia istantanea. I Blind Guardian hanno dato la loro lezione di metal. Spiace per gli altri, ma tutti in fila ad imparare. 'Tales From the Twilight World' solo due anni prima aveva fornito alla band la gavetta necessaria ad esplodere in tutto il mondo, dalla Germania al Giappone, e le aveva indicato la strada da seguire per arrivare al successo. Pochi punti, ma essenziali: arrangiamenti di voce e chitarra mai sentiti prima, una cura maniacale per i soggetti delle liriche, melodie originali e di grande impatto. Non serve altro per sfondare. Sono molti i riferimenti letterari nelle canzoni di questo lavoro. 'Time What Is Time' è ispirata al libro di Philip K. Dick 'Il cacciatore di androidi'. 'The Quest for Tanelorn' è ispirata al libro di Michael Moorcock 'Elric di Melniboné'. 'The Bard's Song: In the Forest' e 'The Bard's Song: The Hobbit' al romanzo di J.R.R. Tolkien 'Il Signore degli Anelli'; 'Somewhere Far Beyond' si basa sulla serie di racconti de 'La torre nera' di Stephen King. Come si può notare Hansi non ha ancora trovato al cento per cento la sua strada, dal punto di vista del songwriting, e scrive di tutto un po’, senza una meta precisa. Da questo punto di vista il successivo Imaginations From the Other Side sarà molto più coerente, poiché tenderà a convogliare tutte le storie trattate sotto un mood uniforme, una grande idea di base comune. La qualità delle canzoni in questo caso è comunque eccelsa. 'Time What is Time', 'The Bard’s Song', 'Somewhere Far Beyond' sono ormai entrati nell’Olimpo dei brani più belli di sempre. Orecchiabilissimi, potenti, unici, non temono rivali con le produzioni più recenti. Naturalmente il sound è più grezzo, i cori sono meno pomposi, ed i brani più concentrati rispetto ai dischi successivi, ma anche questo è un elemento cruciale di distinzione rispetto al resto della loro produzione. Con Somewhere Far Beyond i Blind Guardian sono ancora nella fase di sviluppo: le sperimentazioni vere e proprie arriveranno più avanti. Un album meraviglioso ed indimenticabile.
TALES FROM THE TWILIGHT WORLD

BLIND GUARDIAN [1990], POWER METAL
Eccoci di fronte al primo vero gioiello della longeva carriera dei Blind Guardian. Con 'Tales From The Twilight World' vengono superati i limiti comparsi nel già entusiasmante 'Follow The Blind' e il livello musicale inizia a pietrificarsi su standard eccellenti che d'ora in poi ritroveremo in tutte le successive opere del gruppo. La struttura musicale, da sempre imperniata su energiche galoppate col piede sull'acceleratore e prepotenti assalti melodici, accresce il suo taglio epico, veleggiando disco dopo disco su sentieri sempre più maestosi: il power metal medievale tipico della band tedesca è ormai una splendida realtà nel panorama heavy metal internazionale. Corre il 1991 quando la scena power è agli albori della propria esistenza. Prima dei tedeschi solo i connazionali Helloween, che proprio in questi anni vivono tempi duri dovuti anche alla dipartita dalla band di Kai Hansen, erano riusciti a fare di meglio inaugurando il genere. Il platter si apre con l'incisiva 'Traveler In Time', brano epico e grintoso ispirato alla saga fantasy Ciclo di Dune creata da Herbert. Messi da parte gli scenari gloriosi e fantastici della saga, il Guardiano Cieco torna alla carica e lo fa nel migliore dei modi con 'Welcome To Dying', uno dei tanti classici della band ispirata al romanzo Folating Dragon di Peter Straub: veloce, potente e roccioso, si pone come un illuminante esempio di come si dovrebbe concepire un brano power. Poi si lascia spazio alla strumentale 'Weird Dreams', vera e propria chicca, arrangiata ed eseguita perfettamente. Continuando l'esamina del full-lenght ci troviamo di fronte ad una delle ballad simbolo dell’intera carriera dei tedeschi: 'Lord of The Rings'. Per l’ennesima volta veniamo proiettati oltre l’orizzonte, lungo le epiche lande della Terra di Mezzo, nel tumultuoso viaggio di Frodo e Sam verso l’oscura Mordor. Gli arpeggi classici e di tinta vagamente medioevale si inseguono lungo il brano fino al maestoso finale in pompa magna, la cui unicità vale il prezzo dell’acquisto. Ci allontaniamo ora dai lidi più tranquilli per essere scossi dalla frenetica 'Goodbye My Friend', dove le granitiche chitarre dettano i tempi per un brano tributo al famosissimo film E.T. di Steven Spielberg. 'Lost In The Twilight Hall' è un altro classico della band proposto costantemente in sede live. Una cavalcata in grande stile da non perdere. Da segnalare nel brano anche l’intervento del singer Kai Hansen in alcune strofe e cori. La passione di Hansi & Co. per le storie fantastiche torna alla ribalta con 'Tommyknockers'. Stavolta il testo prende spunto dalla bibliografia del maestro del brivido Stephen King, precisamente dall'omonimo libro Tommyknockers, le Creature del Buio. Canzone discreta dal chorus ipnotico. Altair 4 è un intermezzo breve e suggestivo ispirato a una serie TV degli anni '50, oltre che dal libro sopraindicato. 'The Last Candle' in chiusura è l'ennesimo brano che proietta liriche di stampo fantasy coadiuvate da ritmi taglienti e trascinanti. Un pezzo forte da inserire tra le migliori del lotto. Come bonus track ritroviamo infine 'Run For The Night', estratta dal debutto Battalions of Fear, riproposta in sede live. Non decisiva per l'economia del disco ma di sicuro approccio. Un album fondamentale per l’assimilazione completa del gruppo teutonico. Un punto di svolta verso quel sound che ha caratterizzato e tuttora caratterizza una delle band più importanti e apprezzate della scena. Ispirato. Metallized.it
STORIA DELL'HEAVY METAL
FOLLOW THE BLIND

BLIND GUARDIAN [1989], POWER METAL
Per comprendere appieno Follow The Blind ci si deve necessariamente calare nella realtà del metal europeo di fine anni '80. Mentre nell'Anglia madre terra spadroneggiavano gli act figli della NWOBHM, il continente era investito dall'ondata power speed di matrice teutonica [un termine talmente abusato da essere ormai associato quasi più alla musica che ai sussidiari] della quale gli Helloween restano tutt'ora pietra angolare. Non v'è dubbio che gli esordi dei Blind Guardian seguano un percorso parallelo alla carriera dei connazionali, ma sarebbe sciocco tracciarne gli spazi creativi al di fuori di questo contesto temporale. Non passa poi molta differenza tra degli acerbi ragazzi di Krefeld cresciuti all'ombra di Hansen e soci, e le figliate della Bay Area, o gli eredi più o meno illegittimi di Yngwie Malmsteen; ogni grande epoca musicale ha visto i suoi sommi sacerdoti essere seguiti da una moltitudine di adepti più o meno fedeli, che in alcuni casi hanno saputo portarne il verbo a nuovi apici di devozione. Rispetto al debut Battalions Of Fear, l'album sophomore dei bardi di Krefeld dimostra una maggior compattezza sonora, frutto di una crescita tecnica e creativa valorizzata da una produzione più attenta ed incentrata ad incanalare senza dispersioni l'esuberanza musicale dei Guardian. Il riffing solido di Olbrich e Siepen, il drumming ostinato di Stauch, sono parte di un quadro che si completa con la voce dai tratti vocali oscuri, quasi vendicativi di Hansi Kürsch. Un'ingrediente imprescindibile in pezzi dal forte impatto evocativo come 'Banish From Sanctuary' e 'Damned For All Time', e che caratterizza l'album rispetto all'intera produzione della band, intrisa di letteratura fantasy e atmosfere medievali. Non mancano neppure i riferimenti alla mitologia sassone, un'ode magniloquente al Valhalla e alle sue divinità, tanto amate da Richard Wagner. La traccia omonima, divenuta in seguito una delle colonne portanti dei live dei Guardians, è assieme alle precedenti sintesi di un lavoro che lascia intravedere segnali confortanti di sviluppo, mettendo sul piatto una freschezza invidiabile per l'epoca. I quarantacinque minuti del platter scorrono a velocità sostenuta, con decise accelerazioni ed una furia tale quanto inconsueta se rivista a posteriori; i cambiamenti sono alle porte e l'evoluzione dello stile dei Blind Guardian fa ancor di più di Follow The Blind, volendo giocare con il loro monicker originale, la vera eredità postuma di Lucifero, inteso come un passato dove affondare ben salde le proprie radici. Da metallized.it
BATTALIONS OF FEAR

BLIND GUARDIAN [1988], POWER METAL
La leggenda ha inizio, questo è il primo disco di un gruppo che ha rivoluzionato completamente il concetto di power-metal. Con i Blind Guardian, il sound creato dagli Helloween diviene ancora più tosto, ruvido, pesante e dinamico: un'evoluzione che gli stessi Blind Guardian proseguiranno negli anni '90, giungendo a livelli tecnici e di elaborazione delle melodie davvero innovativi e del tutto personali. In realtà i Blind Guardian esistevano già prima di questo 1989, anche se si chiamavano Lucifer's Heritage e avevano pubblicato solo un paio di demo. Messi sotto contratto , hanno finalmente la possibilità di mostrare di che pasta sono fatti, e in questo Battalions of Fear ci presentano alcune canzoni su cui hanno lavorato per anni, alcune già presenti nei loro demo. Indubbiamente uno dei dischi più belli dei Blind Guardian, con canzoni così elaborate e mature da non sembrare assolutamente un'opera prima: epicità e melodia si fondono qui in un connubio di potenza molto quadrata e articolata su ritmiche veloci proiettate quasi verso i canoni del thrash metal. La galoppata si apre con le prime note di 'Majesty ' lunga suite d'apertura di oltre sette minuti e mezzo con cui i Guardian ci fanno subito scuotere le teste: all'interno ci sono tutti i clichè classici del loro stile, potenza tellurica e melodia, velocità e precisione. La scorribanda si esaurisce in un'esplosione travolgente e ci porta alla successiva 'Guardian of the Blind'. Potenza allo stato puro, una delle canzoni che hanno fatto la storia di questo gruppo tedesco, con un ritornello che 'prende' nel vero senso della parola, trascinandoci in un pogo forsennato anche tra le mura di casa. 'Trial by the Archon' è un corto pezzo strumentale che introduce la successiva 'Wizard's Crown'. Si passa poi a 'Run for the Night, una classica canzone in stile Guardian, potente e veloce. Come la successiva 'The Martyr': potrà sembrare ripetitivo ma l'essenza del platter, e in generale del Guardian Sound, è la velocità folle ed esaltante ricamata assieme ad una potenza devastante. Canzoni che ad un primo ascolto possono sembrare solo sfoggio di potenza ma che in successivi ascolti rivelano una struttira piuttosto complessa nella stesura dei brani. E' infatti questa una delle caratteristiche che hanno reso conosciuti e famosi i Guardian. 'Battalions of Fear' è la title-track del disco e presenta nel dipanarsi della canzone ancora tutti quegli stilemi che hanno permesso al gruppo tedesco di affermarsi per quello che è, con le meravigliose elaborazioni chitarristiche e la sezione batteristica compatta come un pugno in faccia. In chiusura del disco due canzoni che ci presentano uno dei temi fondamentali di tutta la produzione dei Blind Guardian, e cioè l'opera del grande J.R.R.Tolkien con canzoni che già nel titolo -'By the Gates of Moria' e 'Gandalf's Rebirth'- ci riportano alla mente due dei momenti più emozionanti del 'Signore degli Anelli', fissati in modo indelebile nella mente di chiunque abbia letto quello straordinario libro. Siamo di fronte a un disco da avere, non solo perchè si tratta del primo capitolo di una band storica nel panorama metal mondiale ma anche perchè ne riporta all'interno sia le sfaccettature che saranno riprese nel futuro sia quelle di stampo più primitivo, elementi di un power diretto e più duro di quello medievaleggiante che i Guardian sapranno regalarci in futuro.
SABOTAGE

BLACK SABBATH [1975], HEAVY METAL
Black Sabbath: coloro che, per primi, hanno esplorato la parte più estrema del rock, valicando il confine dell’hard rock settantiano per arrivare a quello che in seguito sarà chiamato heavy metal. Il gruppo che, più di tutti, ha influenzato le band delle successive generazioni. Sono stati fondamentali nella nascita di praticamente tutte le variazioni di stile dal metal classico [il doom e il gothic in particolare]. In una parola: leggenda. Tra il 1970 e il 1975, i Black Sabbath hanno pubblicato sei album che hanno rivoluzionato il rock, donando alla propria musica una forma ora opprimente, ora epica, ora sinistra; un tourbillon di emozioni e di sensazioni inquietanti all’epoca quasi del tutto estranee al rock. Di questo periodo d’oro [purtroppo mai più eguagliato in seguito] fa parte questo 'Sabotage' del 1975, album che malauguratamente segna anche il lento ma inesorabile declino della band, declino dovuto certamente da una carenza di idee, ma pesantemente influenzato dalle continue pressioni dell’etichetta [la Columbia] e del management [ovvero la moglie di Ozzy Osbourne, Sharon]. 'Sabotage' si apre con 'Hole In The Sky', un pezzo semplice nella struttura che presenta un riff dal sapore hardrock molto orecchiabile, ma con la solita impronta metallica del leggendario chitarrista Tony Iommi. 'Don’t Start' è invece una strumentale in cui due chitarre acustiche si rincorrono tra affascinanti melodie. 'Symptom Of The Universe' è accompagnata da un riff pesante come un macigno, in cui frequenti sono gli stacchi di chitarra e batteria che duellano tra loro con il basso che interviene sempre al momento giusto; il tutto per creare un patos davvero elevato. Il brano termina con una parte acustica molto rilassante e contornato da assoli di ottima fattura. La seguente 'Megalomania' ha un’atmosfera molto rarefatta: la voce riverberata, la chitarra più oscura del solito, un basso sornione e una chitarra acustica che accompagna ottimamente il tutto. Tutto questo fino a quando Iommi non sfodera uno dei suoi riff duri quanto trascinanti; il ritmo aumenta e sfocia in un assolo pirotecnico e in una performance vocale di Ozzy Osbourne da incorniciare. 'The Thrill Of It All' inizia con un gran pezzo strumentale, passando per un bel riff ottimamente supportato dalla batteria, e termina con un finale buono, seppur molto spiazzante. 'Supertzar' è la traccia più sperimentale dell’intero album: un riff epico e massiccio, ed un imponente muro di cori, prima maschili poi femminili, che ne seguono la melodia creando un’atmosfera divina ed irripetibile. La seguente 'Am I Going Insane (Radio)' lascia abbastanza perplesso l’ascoltatore: il brano è un perfetto singolo radiofonico, seppur l’atmosfera generale è abbastanza acida, in cui sono presenti tutti gli accorgimenti del caso. In seguito Ozzy Osbourne spiegò che questa traccia nacque solamente a causa dello stress accumulato all’epoca, periodo in cui il music business cominciava ad opprimere seriamente il gruppo [non a caso, la crisi cominciò dopo quest’album!]. L’album si chiude con 'The Writ', brano che si apre con urla disperate tra le risate sfacciate e prosegue con l’alternarsi tra un ottimo pezzo di basso e tastiera quasi impalpabile e l’entrata in scena del resto della band con Ozzy che regna con la sua voce stridula e maestosa. Il brano termina con l’alternarsi di parti sognanti ad altre più dure, ma che sanno mantenere la stessa atmosfera. Un album fondamentale seppur leggermente inferiore rispetto alle altre cinque pietre miliari del gruppo ma, considerato anche il periodo storico, qualcosa di davvero stupefacente.

SABBATH BLOODY SABBATH

BLACK SABBATH [1973], HEAVY METAL
La folle corsa dei Black Sabbath, iniziata nel 1970 con lo sconvolgente album omonimo, prosegue su una scia di grandissimi titoli fino ad arrivare al dicembre del 1973, quando sulle bancarelle fa la sua comparsa il quinto capitolo di questa epopea : 'Sabbath Bloody Sabbath'. L'album in questione rappresenta un' ulteriore rivelazione, in quanto il combo decise che era giunta l'ora di una virata al classico stile della band. Quindi, dopo i già timidi accenni presenti su 'Volume 4', 'Sabbath bloody Sabbath' vede l'introduzione di diversi elementi nuovi e in fase sperimentale. L'elemento di maggior novità risiede sicuramente nell'addizione di un membro alla rodatissima line-up che prevedeva appunto Iommi, Ozzy 'Madman' Osbourne, Geezer Butler e Thomas Ward; e tale membro era il grandioso tastierista degli Yes Rick Wakeman. E proprio le tastiere costituiscono l'altra maggior novità, assieme all'uso di organi, sintetizzatori e altri strumenti non esattamente 'avvezzi' all'heavy metal per come veniva concepito all'epoca. Il risultato però fu a dir poco superbo, in quanto le atmosfere tipicamente Sabbathiane vennero ulteriormente enfatizzate senza perdere quell'incisività e quell'aria cupa che erano ormai marchio di fabbrica. Come già avrete potuto intuire dalle righe qui sopra, 'Sabbath Bloody Sabbath' è un disco musicalmente eccezionale, il quintetto è in forma strepitosa e non lo nasconde certo nei vari componimenti. Abbiamo quindi un Tony Iommi che da miglior tradizione macina struggenti riffs con la precisione e la costanza di una macchina, William Thomas Ward che picchia con grande ispirazione dietro le pelli della batteria, Geezer Butler che fa il suo oscuro lavoro di bassista, incupendo la miscela sonora, lo special guest Wakeman a insaporire il tutto e il buon vecchio Ozzy. Eggià Ozzy. Mai un cantante eccezionale quanto a voce, ma dotato di una verve, una creatività e un carisma davvero unici e singolari, Osbourne in questo disco ci regala una prova vocale al di sopra dei suoi standard, che dà una vena di follia a tutto il lavoro degli strumenti musicali. Decisamente misterioso l'artwork, con quel letto farcito di teschi e scritta 666 sui suoi ornamenti, e la figura su di esso sdraiata e tormentata dagli spiriti maligni. Forte di otto song, Sabbath Bloody Sabbath si apre subito con l'eccezionale title-track, che rimane un vero e proprio classico del Sabba Nero. Subito un riff pesante come un macigno, ma che definire carismatico è un eufemismo, ci porta a perderci nel sabba sanguinolento. La song è caratterizzata da parti pesanti e tratti melodici di incredibile bellezza, tale che la prima volta che irrompono causano quasi una sensazione di smarrimento. In tali parti melodiche va segnalato soprattutto uno strapositivo Ozzy, che con la sua voce in questo caso particolarmente intonata, enfatizza mica male il suonato. Splendido pure l'assolo, lento ma duro come un sasso. Dopo essersi presentato in maniera che meglio non si poteva, il quinto prodotto del combo inglese continua con l'altrettanto valida 'A National Acrobat', mid tempo tecnicamente non al livello della titletrack, forse un pochino ripetitivo, ma sicuramente altrettanto carismatico. Da notare subito l'impressionante somiglianza del riff che supporta tutto il primo tratto di song con quello della seconda parte, venuta più di 10 anni dopo, di tale canzone dei Metallica di nome 'Fade to Black'. Degna di nota soprattutto la chiusura del pezzo, decisamente pirotecnica dopo un singolarissimo e contorto tratto centrale. Un magistrale arpeggio fa da introduzione alla strumentale 'Fluff', traccia di 4 minuti e poco più ove i Sabbath ci mostrano il loro lato più melenso, e se vogliamo pure romantico. Grande lavoro di Wakeman sullo sfondo, e ottima prestazione in generale di tutti gli strumenti 'di innovazione', che per la prima volta assurgono al rango di protagonisti della song. Questa magica atmosfera viene interrotta dalla cattiveria di un'altra classica per eccellenza, ovvero 'Sabbra Cadabra', che vede all'opera un grandissimo Iommi e un ottimo Ward. La song si sussegue piuttosto rapidamente, infrangendo come detto l'atmosfera creata da Fluff, e anche qui il buon Rick ci mette del suo, con eccellenti tratti di pianoforte, che conferiscono ancora più enfasi di quanta Sabbra Cadabra già non abbia, per un risultato davvero a 5 stelle. Ma non è finita certo qui. Infatti ci si presenta subito l'ennesimo pezzo da 90, intitolato 'Killing Yourself To Live'. Il brano è tra i più rockeggianti del lotto, sia per i riff che per le ritmiche che per la velocità della song. Musicalmente 'Killing' è suonata davvero bene, e abbiamo sia una delle migliori prove di Ozzy dietro il microfono che assoli tra i più lunghi e coinvolgenti di tutto 'Sabbath Bloody Sabbath' [il secondo in particolare è una perla di rara bellezza]. Un lavoro di sintetizzatori funge da attacco all'oscura e malinconica 'Who are You', forse la track più cupa e densa di sperimentazioni in assoluto dell'album. Il lavoro svolto dall'elettronica qui è davvero molto pesante, ma il risultato è complessivamente più che soddisfacente. Anche se 'Who are You' non è tra i pezzi più incisivi del lotto, rimane comunque una canzone da ascoltare e riascoltare, soprattutto per un tratto di tastiere a dir poco fenomenale. Ritorno a melodie molto più hard rock con la validissima 'Looking for Today' che nasconde però una falsa allegria. Infatti il brio delle parti suonate -e composte come al solito in maniera superba-, fa da grandioso contrappasso alla tristissima lirica, che narra di una persona che si brucia la carriera, carriera che aveva appena raggiunto il massimo splendore. Fantastici il ritornello e l'assolo che conclude in fade out il pezzo, lasciando spazio all'ultima icona del disco, la leggendaria 'Spiral Architect'. Introdotta da un melanconico arpeggio di guitar, Spiral Architect racchiude al suo interno tratti estremamente melodici ad altri decisamente più sonori. Tali due parti sono comunque splendidamente legate, ed esaltate ancora dal lavoro in sottofondo di ottime parti orchestrali, che infarciscono una song a mio parere tra le più belle mai concepite dai Black Sabbath. Che altro dire?. Abbiamo terminato l'ascolto di una delle perle più luminose che l'heavy metal può offrirci, tutto qui. Ci troviamo davanti ad uno dei lavori più importanti dei creatori del Metallo Pesante, forse quello che maggiormente ha contribuito all'evoluzione del genere. E' una bestemmia non avere nella propria discografia questo vero e proprio oggetto di culto.

VOLUME IV
BLACK SABBATH [1972], HEAVY METAL
Il quarto lavoro in studio dei gloriosi Black Sabbath fu pubblicato nel settembre 1972 con il semplice titolo Vol 4. In realtà il disco avrebbe dovuto intitolarsi Snowblind ma la casa discografica si oppose fermamente perché la parola snow [neve] è in realtà un esplicito riferimento alla cocaina. Da evidenziare, in merito, che c'è una voce nei crediti, sia del disco che del CD, che riporta allusivamente la frase We wish to thank the great Coke Cola company of Los Angeles [il lavoro fu registrato in quella città]. L’album, pur permanendo nel contesto del consolidato doom & hard delle origini, presenta alcune interessanti variazioni musicali grazie all’inclusione di elementi progressive rock, genere molto in voga in quel periodo storico, che conferiscono a talune songs una minore cupezza ed una maggiore melodia rispetto a quanto realizzato dal gruppo fino a quel momento. Per tale motivo qualche critico ed alcuni fans storsero il naso ritenendolo un cambio di rotta inopportuno che diminuisce quella ruvidezza propinata dalla band nei tre dischi precedenti [Black Sabbath, Paranoid e Master Of Reality]. A prescindere da questa melodicizzazione del sound, il livello qualitativo delle canzoni che compongono quest’album è stellare. La lunga e quasi psichedelica 'Wheels Of Confusion/The Straightener' ha il compito di aprire il disco: introdotta da una lamentosa chitarra, il ritmo sale gradatamente d’intensità poggiando su un riff ripetitivo ed alternando parti lente ad altre più veloci; decisamente sugli scudi l’assolo veloce di Iommi e bellissimo il finale della piacevole song che evapora fra un inquietante eco di chitarra. Segue 'Tomorrow's Dream', un vibrante hard rock con un suono grezzo di grande efficacia del nostro Iommi. 'Changes' è il brano più suggestivo di questa release ed è quello che inizia ad evidenziare un certo cambiamento stilistico del sound; si tratta di una triste ballata, sorretta dal suono del pianoforte e del mellotron nonché dalla malinconica voce di un ispirato Ozzy, che parla di un amore perduto: 'Mi sento così infelice, Mi sento così triste: Ho perso il migliore amico che abbia mai avuto, Era la mia donna. L'ho amata tanto Ma ora è troppo tardi, L'ho lasciata andare'. Davvero strappalacrime. 'FX' è una strana composizione in cui il suono di una chitarra si unisce ad altri rumori distorti inquietanti ed oscuri. 'Supernaut' è un grande pezzo molto diretto che colpisce l’ascoltatore con un memorabile riff che ne fa uno dei brani migliori in assoluto dei Sabbath; ottima la prova di Ward alla batteria. Passiamo dunque a 'Snowblind' che, come predetto, avrebbe dovuto essere la title track; si tratta di un hard rock, sostenuto da un riff da sballo e dai contorni melodici e ricercati, che si snoda su parti lente ed altre più sostenute; brano ottusamente criticato al pari di 'Changes' per il suo discostarsi troppo dai cliché tradizionali della band. Il titolo si riferisce alla cocaina sebbene c’è chi sostenga anche l’ipotesi che possa ispirarsi al contenuto di un romanzo intitolato 'L'Eternauta', nel quale la 'neve' si identifica nelle ceneri radioattive nucleari. Grande track è anche 'Cornucopia', dall’inizio doom che si alterna poi in fraseggi veloci ad altri lenti fino all’intenso finale. 'Laguna Sunrise' è un pezzo evocativo acustico con tanto di violino avulso dal contesto della produzione dei Sabbath. In 'St. Vitus Dance', pezzo forse un po’ breve e disincantato che avrebbe meritato una maggiore durata al fine di avvalorarlo e completarlo viste le ottime premesse, c’è da esaltare ancora una volta il riff magnetico di Tony Iommi e da segnalare l’uso efficace del tamburello nel refrain. L’angosciante 'Under the Sun Every Day Comes & Goes' si apre nel segno del doom con un riff oscuro per poi modificarsi su un’altra ritmica e concludersi con un assolo di chitarra esaltante; potente e stridula la voce di Ozzy; l’assolo finale di Iommi ci porta alla conclusione del disco. Album certamente atipico per i motivi menzionati ma assolutamente meraviglioso.
MASTER OF REALITY
BLACK SABBATH [1971], HEAVY METAL
Dopo due lavori seminali quali 'Black Sabbath' e 'Paranoid', che sconvolsero tutti i canoni musicali dei primissimi Seventies, i Black Sabbath si riaffacciano per la terza volta sui mercati musicali con un loro prodotto, 'Master of Reality'. Questo album, etichettato dalla Warner Bros, non fa altro che proseguire sui binari che erano stati buttati solo l'anno prima dal diabolico quartetto composto da Iommi, Ozzy, Butler e Ward, e rappresenta una sorta di ottima sintesi tra i due lavori sovracitati. Infatti Master of Reality è cupo come Black Sabbath, pur avendo degli elementi e delle atmosfere dinamiche a tratti singolari, nello stile di Paranoid. Questo mix di brio e cupezza è davvero amalgamato a regola d'arte, e viene accentuato ulteriormente dalle singole prove dei musicisti, qui davvero in forma smagliante. Tecnicamente lo strumento che domina come forse mai è la chitarra, che spazia la sua prestazione da riff quadrati e rocciosi a delicati e melodiosi arpeggi. La prestazione di Iommi è seguita a ruota da Ozzy, decisamente su di giri con la sua voce, quantomai riconoscibile, ma questa volta sempre perfettamente integrata. Un buon Ward e Geezer Butler a fare grandi rifiniture bassistiche condiscono un album purtroppo non molto lungo [nemmeno 40 minuti], ma estremamente pieno e gustoso da ascoltare. Il platter viene aperto da degli starnuti estremamente distorti che lasciano presto spazio a un riff di quelli che hanno reso celebre il signor Iommi, nella fattispecie il riff di 'Sweet Leaf'. La song è appunto un incessante dominare della rhythm guitar, sulla quale Ozzy intona con discreta ispirazione. Tutto il mid tempo [che va però aumentando in velocità col passare dei minuti, e con una spettacolare parte centrale affidata a chitarra e batteria] ha una sonorità leggermente di distorta, e ha come maggior pregio il lavoro sullo sfondo di Geezer Butler, che non sempre si sente, ma che quando udibile [nelle parti prettamente strumentali] raddoppia il pathos messo in gioco. I cinque minuti di 'Sweet Leaf 'lasciano dunque subito un'ottima impressione, ma sono solo l'antipasto per la song che segue, probabilmente una delle più famose partorite nella carriera del Sabba Nero. Dotata di un ottimo inizio in Fade In, 'After Forever' parte in maniera estremamente dinamica, con uno stile che quasi non sembra quello dei Sabbath, ma ben presto si torna alla normalità e Tony ci regala un altro riff da antologia. Il resto è un susseguirsi ed alternarsi tra questi giri di chitarra, che cambiano ulteriormente nella parte centrale, e le parti dinamiche che caratterizzavano l'inizio. Ozzy è ancora protagonista assoluto, e contribuisce ad abbellire una song che già strumentalmente è geniale. A seguito di due canzoni di classe purissima, fa seguito un'introduzione di 30 secondi, chiamata 'Embryo', che crea una perfetta situazione di pacatezza ma anche attesa verso quella che verrà. Se infatti dissi poco sopra che 'After Forever' era una delle migliori e famose canzoni dei Sabbath, questa è sicuramente sua degnissima compagna. Veniamo introdotti da un grande approccio di batteria e basso, per poi far scatenare lo spaventoso riff, ormai rimasto nella storia del genere, di 'Children of the Grave'. Il ritmo è tutto sommato pacato nelle velocità ma estremamente trascinante nella sostanza, e tutti e 4 i musicisti interpretano al meglio la loro parte, con lode per la batteria [darla alla chitarra è fin troppo scontato]. Grandioso il cambio di tempo e tematica verso il secondo minuto e mezzo di canzone, che fa calare per un attimo un'atmosfera davvero funebre, tornando poi sui sicurissimi binari principali. L'assolo è impressionante e per composizione e per esecuzione, e fa da preludio ad un'ennesimo cambio di atmosfera. Finita questa meraviglia fortunatamente non si rimane delusi, perché nella sua totale differenza anche 'Orchid' risulta essere meravigliosa. Questo stupendo arpeggio, che ci conduce in un'altra dimensione, fa anch'esso, come Embryo, da intro ad una song, 'Lord of this World'; c'è però da dire che questo è uno di quei rari casi ove l'introduzione alla traccia supera in bellezza la traccia stessa. Non che 'Lord of this World' sia un pezzo minore, anzi: anche lei è davvero quadrata, un mid tempo concentrato di potenza e durezza ne più ne meno che i lavori precedenti, con un Madman che si cala perfettamente nel suo ruolo. A seguito di questa ennesima, sopraffina accoppiata, veniamo accolti dal brano più lungo in assoluto dell'album, 8 minuti e 8 che rispondono al nome di 'Solitude'. E anche qui i 4 britannici che si fregiano di aver inventato il Metallo Pesante riescono a stupire, con un pezzo lento e malinconico come ce ne sono pochi. Si riesce davvero a percepire, oltre ad un'atmosfera di un tempo che fu e che mai più sarà, una sensazione di solitudine quasi palpabile, che rende veramente pieno giudizio al titolo. Quindi tanto di cappello ai Black Sabbath. La song viene seguita dalla breve 'Into the Void', che ricalca la falsariga dei pezzi Sabbathiani di Ozzy, ma che è infarcita da maggiore esplosività: il che fa sempre bene ed aiuta a chiudere l'album come era iniziato, ovvero sotto attese altissime pienamente rispettate e, volendo, anche superate.

PARANOID

BLACK SABBATH [1970], HEAVY METAL
Paranoid è il secondo album dei Black Sabbath, gruppo di Birmingham formatosi sul finire degli anni ’60 ed esordiente pochi mesi prima con un album omonimo a dir poco sconvolgente per qualità e innovazione. Accostati a Led Zeppelin e Deep Purple, i Sabbath possono in effetti essere compresi più facilmente nella corrente hard rock di inizio anni ’70 che portava alle estreme conseguenze l’evoluzione sonora intrapresa dai Cream e Jimi Hendrix: il blues che si appesantiva e accelerava sempre più, divenendo hard rock, proiettato verso la trasfigurazione dell’heavy metal e verso le sue successive ramificazioni. Heavy metal che in effetti in Paranoid trova i suoi germogli ['Iron Man su tutte'], ma che in ogni caso verrà anticipato maggiormente da Iommi negli album successivi. La musica dei Black Sabbath è pesante e opprimente, quasi sempre strascicata su un canovaccio decadente e cadenzato che verrà in seguito canonizzato come 'doom metal'. La potenza massiccia dei riffs e la corposità della sezione ritmica pongono le basi del tipico 'wall of sound' che la band aveva ricercato e trovato già nel suo disco d'esordio, e che in 'Paranoid' si evolve e matura verso sfumature a tratti più dinamiche e a tratti ancor più dure. Come i Led Zeppelin, i Black Sabbath godono dell’attributo di amanti dell’occulto e della magia nera -riferimenti a Lucifero già presenti nel primo album si ripeteranno spesso nella loro carriera-, caratteristiche che non mancano in questo Paranoid ma che vengono messe inaspettatamente in secondo piano dalla carica di protesta in quegli anni presente in America e in generale in tutto l’Occidente. Fondamentale comunque resta l’attitudine al macabro e alle tenebre che si rispecchia in ogni canzone, suono, nota. Per rigor di cronaca ricordiamo che a precedere i Black Sabbath in questo sound 'hard rock oscuro' ci furono un paio d’anni prima i Vangelis e i Black Widow, ma onestamente raggiungendo livelli decisamente più bassi. Che poi alla fine quello che conta è la musica. E la musica è 'War Pigs': otto minuti epici composti da riff e assoli superiori alla norma, a dominare la scena il carisma di Ozzy Osbourne e la chitarra di Tony Iommi, senza dimenticare un basso e una drumming per nulla scontati. 'War Pigs' è una canzone politica, di protesta contro la guerra in Vietnam: aldilà di un testo sorprendente che definire ironico sarebbe un eufemismo ['Generals gathered in their masses Just like witches at black masses; Politicians hide themselves away They only started the war'] riuscitissimo è l’effetto di iniziare il brano con una sirena per creare l’effetto della chiamata alle armi e il pericolo imminente di una crisi. 'Paranoid', probabilmente il brano più celebre del gruppo, gode di un riff immortale, al pari della 'Smoke On The Water' dei Deep Purple, e di fatto risulta il pezzo più atipico dell’album, con il suo ritmo accelerato ed il suo testo che parla di pazzia e crisi esistenziale. 'Planet Caravan' offre un’avventura in una soffice psichedelia cosmico-spaziale alla maniera dei primi Pink Floyd e degli Ash Ra Temple, straniando l’ascoltatore con una voce profonda e filtrata che sembra provenire da epoche e luoghi remoti. 'Iron Man' è un altro capolavoro. Inizio alienante da antologia: voluminosi singoli battiti a creare l’effetto dei pesanti passi di questo 'uomo d’acciaio' che si presenta con una voce robotica accompagnata da una chitarra immersa in una distorsione lancinante, a far trionfare un feedback malato e misterioso: ennesima grande prova di Iommi con un altro riff impetuoso ma imponente, il batterista Bill Ward che tenta di rubargli la scena con una prestazione titanica. Ascoltando 'Electric Funeral' sembra di sentirla parlare questa chitarra sinuosa e ammaliante. Narrando di un’apocalisse guidata dal diavolo il brano sembra rientrare in quel filone di brani cosiddetti 'satanisti' che ha portato preti e benpensanti a strepitare contro la 'musica infernale'. In realtà i contenuti più 'pericolosi' del disco non sono di tipo profano-religioso ma continuano a essere spietati atti d’accusa politico-morali: 'Turn to something new, now it's killing you First it was the bomb, Vietnam napalm; Oh you, you know you must be blind To do something like this' canta Ozzy in 'Hand Of Doom': un presente fatto di orrori in cui non si riesce a credere. Un presente da cui si vuole evadere a tutti i costi, anche baciando la Morte infilandosi un ago nel braccio. I sette minuti del brano diventano allora un tremendo epicedio della generazione eroinomane che è profondamente estranea a quella hippie di San Francisco. I continui cambi di ritmo del brano risaltano i differenti stati d’umore di chi galleggia tra euforia e desolazione e che trova la triste fine in poche note cupe del basso di Butler. Il breve strumentale 'Rat Salad' è l’occasione offerta al batterista di mettersi ulteriormente in mostra con una prestazione degna del miglior John Bonham [Led Zeppelin[. A chiudere, 'Fairies Wear Boots- JackThe Stripper' che sfrutta ancora una volta un testo geniale in cui si ritrovano tematiche sia politiche che sociali: sociali per il riferimento abbastanza netto alle droghe allucinogene, politiche perchè le fate in questione che portano stivali sono un riferimento ai naziskin che più volte aggredirono quei capelloni satanisti dei Black Sabbath. Forse, il miglior disco dei Black Sabbath e una delle massime vette del rock degli anni '70.

BLACK SABBATH

BLACK SABBATH [1970], HEAVY METAL
Quando i Deep Purple suonavano ancora pop, e i Led Zeppelin erano ancora legati al folk-blues, come se formatisi dal nulla già adulti e consapevoli, apparvero i Sabbath. Il primo singolo, 'Evil Woman [Don't Play Your Game With Me]' non ebbe un gran successo, ma da allora iniziò il passaparola, perchè qualcosa di nuovo era apparso sulla scena musicale. 'Black Sabbath' uscì venerdì 13 febbbraio 1970, registrato in 3 giorni per un costo di 600 sterline. L'impatto fu devastante, tanto da entrare immediatamente nelle Top 10 britanniche, in compagnia di Simon and Garfunkel, Beatles, The Who. La musica oscura ed incalzante, la croce rovesciata stampata all'interno della copertina, un ritmo ossessivo trascinato da batteria e basso, con riff mostruosi e monolitici di chitarra distorta. Vi ricorda qualcosa? La formazione originale era composta da John Michael 'Ozzy' Osbourne alla voce, Frank Anthony 'Tony' Iommi alla chitarra, Terrence Michael 'Geezer' Butler al basso e William Thomas Ward alla batteria. E così fu che, mentre intere generazioni si sollazzavano con i teneri Beatles, nasceva l'arte oscura dell'Heavy Metal. In una manciata di canzoni, i quattro ragazzi figli della classe operaia di Birmingham concentrarono paura, angoscia e frustrazioni ponendo le basi di un intero movimento, l'Heavy Metal appunto, realizzando una musica potente ed opprimente come mai si era udita prima. Black Sabbath è un album meraviglioso, che non si finirà mai di ascoltare e che ha fatto scuola fin dalla prima ora, strutturato attorno ad un nucleo di primordiale doom sound a ritmi cadenzati, maciullanti, spettrali. In apertura c'è la title track, Black Sabbath, la canzone che per prima dava un segno che i tempi erano cambiati. Una tempesta, campane, il resoconto delirante di una notte oscura, nella quale il senso del buio va ben oltre la semplice mancanza di luce. Trascinante. Da canzoni quali 'The Number of the Beast' dei Maiden si capisce come siano in molti ad aver ascoltato questo pezzo tante volte. Ovunque il disco è pervaso da quell'alone di oscurità e potenza sonora che costituisce il classico 'Wall Of Sound' del quartetto britannico, un marchio di fabbrica inconfondibile e tremendamente innovativo per l'epoca: i giovani ribelli figli delle classi più disadattate avevano trovato pane per i loro denti! 'The Wizard' è il pezzo che forse più di tutti ricorda le orgini blues del gruppo, con pezzi di fisarmonica che trascinano in un buon ritmo ed un testo quasi da fiaba. 'Behind the Wall of Sleep' ci accompagna verso 'NIB', veloce, melodica, dal testo oscuro e demoniaco. A dire il vero, pare che dei 4 solo Geezer Butler s'interessasse alle arti nere e all'occultismo, ma la prima etichetta dei Sabbath spinse molto su questo tasto, aiutando creare l'aura oscura che circonderà la band per parecchio tempo: 'Now I have you with me under my power, our love grows stronger with every hour, look into my eyes, You'll see who I am, my name's Lucifer, please take my hand' ['Ora ti ho qui, con me, sottoposta al mio potere, il nostro amore cresce più forte di ora in ora, guarda nei miei occhi, vedrai chi sono, il mio nome è Lucifero, dai prendi la mia mano.']: questa strofa e un degno assolo ci portano a 'Evil Woman', forse la song più leggerina dell'album, comunque piacevole e orecchiabile. 'Sleeping Village' è un viaggio, ti prende per mano e ti accompagna verso i ritmi blues di 'Warning', marcatamente psichedelico. Si tratta di una cover, l'unica nella carriera per i Sabbath. L'album si chiude con il robusto e jazzoso 'Wicked World', che ci riporta di forza nel mondo dei primi Sabbath, fatti di sound monolitico e voce tagliente. A questo album va il massimo dei voti., essendo la pietra angolare sulla quale si poggerà l'intera storia dell'heavy metal Diciamo che se la storia e la leggenda del metal non v'interessano, e se il ritmo più blando che riuscite a sopportare è quello dei blacksters Marduk, abbassate tranquillamente il voto anche di 40 punti, anzi, non compratelo. Nessuno ha mai detto che per apprezzare una musica bisogna ripercorrerne per forza le origini più remote, ma se oggi apprezzate band che si presentano col volto tinto, e fanno i dannati sul palco, sappiate che negli anni 70 ci fu qualcuno che spianò loro la strada. I Sabbath aggredirono il pubblico, scioccarono i genitori, rapirono milioni di fans nel loro mondo di tenebre e con i loro riffoni da enciclopedia.

ORGASMATRON

MOTORHEAD [1986], HARDROCK
Se c'è un anno che ha davvero dato tanto al metal, questo è sicuramente il 1986, considerato praticamente all'unanimità l'anno d'oro del thrash grazie all'uscita dei vari 'Master of Puppets', 'Reign in Blood', 'Among the Living' e compagnia bella. Nel frattempo i Motorhead, band che diede davvero tanto al movimento thrash in materia di idee ed ispirazione, stavano cambiando radicalmente pelle. Solo due anni prima la band aveva mutato faccia, ed aveva abbandonato la formula del trio, che aveva imperversato in tutta la metà dei 'Seventies' fino al 1982, data di uscita di Iron Fist. Dopo quel disco, Lemmy vide uscire mano a mano i suoi compari, in quanto 'Fast' Eddie Clarke abbandonò dopo il pugno di ferro a causa dissidi interni, mentre Phil Taylor sparì a seguito di 'No Remorse', vero disco spartiacque per i numerosi cambiamenti all'interno di esso. 'No Remorse' fu infatti il primo lavoro con una rinnovata lineup a 4 membri, e fu anche il disco dove Brian Robertson [temporaneo rimpiazzo di Clarke] e Phil Taylor vennero rimpiazzati dai nuovi innesti Wurzel [chitarra], Peter Gill [batteria] e soprattutto Philip Campbell [chitarra], destinato a durare tantissimo accanto a Lemmy. Ma torniamo al 1986. Il quartetto finalmente consolidato [Kilminster, Campbell, Wurzel, Gill] prorompe sul mercato il 9 agosto con un disco che sarebbe stato destinato a lasciare un segno. Il titolo di questo prodotto era 'Orgasmatron'. L'album si dimostra subito molto ispirato, sicuramente il più ispirato dai tempi di 'Ace of Spades' e compagnia bella. La soluzione musicale proposta dal platter richiamava appunto abbastanza marcatamente quella dei primi lavori, con delle alcune delle singole track che risultano davvero spettacolari. A livello di sonorità Orgasmatron è invece essere abbastanza differente dalle prime produzioni: infatti per quanto concerne il sound siamo su piani più leggeri e moderni rispetto al passato, ma l'utilizzo dei 4 strumenti rende le trame più complesse, aumentando di molto la presa che le canzoni hanno sull'ascoltatore. La locomotiva infernale [basta vedere la cover del disco per interpretare questo appellativo] Orgasmatron parte subito in quinta con uno dei suoi migliori pezzi, ovvero la fantastica 'Deaf Forever'. Si sente subito la differenza di sonorità, ma non è affatto un male, in quanto si percepisce in contemporanea l'enorme quantità di elettrcità che pervade l'ambiente. Il mid tempo è fondato su dei riff azzeccatissimi nelle strofe, strofe legatissime ai refrain che dimostrano qualità davvero evidenti sia in fase esecutiva che carismatica. Splendida la lirica e grande assolo di Campbell, ormai integrato a pieni giri nel motore del combo. In sostanza, secondo me, Deaf Forever può essere considerata, come già detto, una delle migliori song e del disco, e uno dei migliori mid tempo di tutta la produzione Motorheadiana. Potrò essere contestato per questa affermazione, ma la carica che mi dà questa canzone è indescrivibile. A seguito di questa scossa di terremoto arriva l'altrettanto buona 'Nothing Up My Sleeve', cavalcata che ricorda moltissimo le hit passate per ritmiche e impatto immediato. Grande l'intreccio fra le due chitarre, supportate dal Lemmy Bass che suona sempre con la proverbiale rudezza e costanza. Ennesimo assolo promosso a pieni voti e ottima conclusione in crescendo. Sicuramente meno famosa rispetto alle prime due tracce ma comunque di ottimo livello è anche 'Ain't My Crime', molto tirata e dall'intro decisamente quadrata e scoppiettante allo stesso tempo. Ottimo il lavoro batteristico, Lemmy invece mi sembra un pò meno convincente del solito dietro al microfono, ma in compenso è intonatissimo e ben supportato dalle backing vocals nel refrain. Dirompenti e molto, molto enfatizzati i due assoli, che sono qualitativamente tra i migliori dell'album. Drumming sostenuto in introduzione a 'Claw', track più rocciosa e forse meno esplosiva rispetto alle precedenti, ma sicuramente con la stessa capacità iptnotica. Buon testo, forse un pò ripetitivo, backing vocals che si producono in urla e incitamenti e solo distorto sono le ciliegine sulla torta dell'ennesima canzone dal grande potenziale, ma molto sottovalutata. Nulla da dire nemmeno su 'Mean Machine', una vera e propria scarica 'Bomberiana' nelle orecchie dell'ascoltatore. Il sound è un pò più pieno rispetto alle precedenti canzoni, e questo lo vedo come un bene. Da segnalare anche l'eccezionale ritornello, unica pecca la brevità della song. Come potete notare dalla mia scrittura stiamo passando da una song splendida all'altra, e il passaggio da 'Mean Machine' a 'Built for Speed' non cambia le cose. La grande batteria iniziale fa subito capire la pasta del pezzo, e il riff duro ma non pesante non fà altro che confermare questa sensazione. Il brano prosegue possente, senza cadute di tono e mantenendosi su livelli carismatici che tante band si sognano. Ogni disco, come si sa, ha un punto debole. In un Orgasmatron finora spettacolare, il punto debole pare 'Ridin' With the Driver'. Al penultimo posto ecco la cavalcata 'Doctor Rock', buon pezzo, orchestrato benissimo nei refrains, ma con le strofe che peccano fose di eccessiva ripetività. Non male comunque come pezzo, che fa soprattutto da preludio ad una vera e propria Perla ei Motorhead, la tile track. Ecco, Orgasmatron è devastante, la vera sublimazione di tutto il platter. L'intro con la chitarra distorta ci mette subito sull'attenti, la voce roca e il riff roccioso, dotato di quel tocco di classe e di quel piglio che solo le canzoni destinate alla storia hanno, fanno il resto. Lemmy più che cantare parla, ma come parla! malvagio e diretto è dire poco. Tecnicamente non siamo di fronte a nulla di eccezionale, anzi sul disco c'è di meglio, ma il livello compositivo e il carisma suscitato nel complesso ha davvero pochissimi eguali nel suo genere, mostruoso, come mostruoso è l'assolo nella sua oscura pacatezza.