RONNIE JAMES DIO

RONNIE JAMES DIO [Portsmouth, 10 luglio 1942] è stato un cantante statunitense heavy metal, di origine italiana, che ha fatto parte di storici gruppi come Rainbow e Black Sabbath e ha poi fondato una propria band di grande successo, nota proprio come Dio. La sua timbrica caratteristica e l'aurea leggendaria di mistero e teatralità che lo avvolge lo ha reso una vera icona della musica rock e metal. È considerato una delle voci più caratteristiche, potenti ed imitate della scena, e molti ritengono che abbia diffuso il gesto delle corna nella sottocultura heavy metal. Secondo una versione fornita dallo stesso cantante, l'atto deriverebbe direttamente dal classico gesto apotropaico, che sua nonna faceva spesso. Sui dati anagrafici di Ronnie James Dio aleggia molta incertezza. Statunitense figlio di genitori italiani, all'anagrafe risulterebbe come Ronald Padavona, ma alcuni ritengono invece che il suo cognome sia o Padovano, o Padovana oppure Padovanelli; sarebbe nato a Portsmouth nel New Hampshire, il 10 luglio 1942. Ronnie crebbe a Cortland nello stato di New York. Ancora adolescente iniziò a suonare la tromba in gruppo rockabilly e si diede lo pseudonimo 'Ronnie Dio'. Il termine Dio non venne scelto per riferimenti religiosi ma ispirandosi ad un gangster statunitense di origini italiane, Johnny Dio. Nel 1957 fondò un gruppo di rock'n'roll dal nome 'The Vegas Kings', conosciuto negli anni come 'Ronnie Dio and the Prophets'. Con questo gruppo, il cantante inciderà una manciata di singoli ed un solo album nel 1963, Dio at Domino's. All'inizio degli anni settanta passò a sonorità più decisamente hard rock creando un nuovo gruppo, noto prima come Electric Elves, poi come Elves e infine come Elf. Gli Elf incisero un primo omonimo album negli Stati Uniti nel 1972, per poi spostarsi in Gran Bretagna nel 1973, con un contratto per l'etichetta Purple, incidendo altri due albums: L.A. 59 e Trying To Burn The Sun.

In Inghilterra Dio si trovò in contatto con la scena dell'hard rock e dell'heavy metal. Il suo gruppo arrivò ad aprire i concerti dei Deep Purple, gruppo in cui suonava il chitarrista Ritchie Blackmore. Impressionato in particolare dalle doti vocali di Dio, e deciso per altri motivi ad abbandonare i Deep Purple, nel 1975 Blackmore prese le redini degli Elf, ribattezzandoli Rainbow e facendone un gruppo suo. Dopo alcuni album con i Rainbow, Dio si trovò in disaccordo con Blackmore, che voleva portare la band verso un genere più commerciale, e abbandonò, venendo subito reclutato dai Black Sabbath che, nel 1978, avevano appena licenziato il cantante Ozzy Osbourne. Dio fornì nuove energie ai Black Sabbath, che attraversavano un periodo di crisi, e incise con loro due album fenomenali nella storia dell'heavy metal, Heaven and Hell e Mob Rules, oltra ad un live dal titolo Live Evil. Attriti con i Sabbath lo portarono però ad abbandonare nuovamente e formare, insieme a Vinnie Appice, uscito dai Black Sabbath insieme a lui, una propria band di nome Dio. La band esordì nel 1983 con l'album Holy Diver, pubblicato da Vertigo; oltre a Dio e Appice, apparivano Jimmy Bain al basso e Vivian Campbell alla chitarra. L'album ebbe un enorme successo di pubblico, e contribuì a definire un certo genere di metal dai contenuti fantasy e mitologici, già in parte presenti nei lavori di Rainbow e Sabbath, ma che con Holy Diver, e il tour che ne seguì, prese forse una forma più esplicita che mai; negli infuocati show di Dio le tecnologie più moderne, come esempio il laser, venivano utilizzate per creare un'atmosfera fantastica, popolata da draghi, mostri, demoni e spettri, fornendo forse il prototipo a cui alludono molti gruppi più recenti. Nel 1984 Dio rinnovò il suo successo con The Last in Line, altro album ricco di riferimenti mitologici, mistici e fantastici, e accompagnato da un tour con scenografie altrettanto visionarie: memorabile per esempio la collocazione della batteria di Appice in cima a una piramide egizia di oltre dieci metri, e la chitarra di Campbell dotata di raggi laser. Sacred Heart del 1985 e Dream Evil del 1987 proseguivano essenzialmente sulla stessa linea, ricalcando i temi sia musicali sia contenutistici dei primi due lavori; nel secondo, Campbell fu sostituito da Craig Goldie, ex Giuffria. L'album successivo, Lock Up the Wolves, fu pubblicato nel 1990, con Rowan Robertson sostituto di Goldie alla chitarra, e Simon Wright, ex AC/DC, alla batteria. Seguì la parentesi reunion dei Black Sabbath con l'album Dehumanizer, dalle sonorità molto graffianti. Di stile sonoro risentì anche il successivo album dei Dio, Strange Highways, accolto piuttosto male dai fan; così come non molto soddisfacente si rivelò il seguente Angry Machines del 1996. Nel 1998 i Dio pubblicarono il doppio album dal vivo Inferno-The Last in Live, che ripercorreva tutta la carriera di Dio, compresi brani dei Rainbow e dei Black Sabbath. Nel 1999, Ronnie James Dio appare in un episodio del cartone South Park intitolato Hooked on Monkey Phonics. Il successivo album in studio, Magica, del 2000, era un vero e proprio concept album, ispirato a un libro di incantesimi. Anche questo comunque lasciò perplessi molti fan, soprattutto per i toni cupi, pesanti e piuttosto monotoni. Migliore fu l'accoglienza per Killing The Dragon, un album più leggero, che sconfina addirittura nel rock'n'roll. L'ultima opera dei Dio a oggi è Master of the Moon del 2004, piuttosto vicino al precedente. Nel 2006 Dio ha fatto una rapida comparsa nel film 'I Tenacious D e il Plettro del Destino'. Dio si è riunito a Tony Iommi, Geezer Butler e Vinnie Appice per dare vita agli Heaven and Hell, il quale altro non è che la formazione del disco Mob Rules dei Black Sabbath. Nel 2008, ha partecipato insieme ad altri artisti dei generi hard rock e metal alla produzione dell'album 'We wish you a metal xmas and a headbanging new year', composto da brani incentrati sul Natale, riscritti in chiave Metal; nel 2009 esce il molto atteso album da studio degli Heaven and Hell, intitolato The Devil You Know, ma purtroppo il cantante si ammala di un cancro allo stomaco e muore il 16 maggio 2010 alle 7.45, lasciando una ferita immane nei cuori di tutti gli appassionati.

DAL THRASH AI GIORNI NOSTRI

METALSTORY: LA NASCITA DEI SOTTOGENERI. Il thrash fu una risposta pesante al glam, ma bisogna dire che in Europa il metal era rimasto abbastanza serio per incutere rispetto e timore. Dall’Inghilterra, gli storici rocker Motorhead influenzarono non poche band che, come i Venom, diedero origine al movimento del Black Metal, scarno quasi come il punk e tremendamente lugubre, perfido, satanico. Dischi come ‘Welcome To Hell’ e ‘Black Metal’ ispirarono proprio le band della Bay Area: gli stessi Metallica sono cresciuti con la musica di Cronos e compagni, e il thrash nasce proprio dalle accelerazioni intuite dai blackster. Il filone black proseguì la sua evoluzione inasprendo la musica e le tematiche, supportato via via da alfieri come Bathory, Mercyful Fate, Marduk e Mahyem. Il thrash nel frattempo faceva passi da gigante. I Metallica, le stelle più brillanti, mettevano a segno colpi clamorosi con dischi immortali come ‘Ride the Lightning’ e ‘Master Of Puppets’, ritenuto da molti il platter definitivo per eccellenza del thrash e dell’heavy in generale. La band di Hetfield era praticamente sovrana della scena, ora con un repertorio più vario ed elaborato in cui potevano passare indifferentemente dalla velocità spaccaossa degli esordi a macigni ossessivi e potenti, da pezzi aggressivi e duri come rocce ad altri più dolci e melodici, analizzando tutti gli stati d’animo riscontrabili nella personalità umana. Purtroppo nel 1986 la perdita, in un incidente del tourbus, della mente e braccio Cliff Burton, segnerà un’escalation prepotente che già così, mozzata, resterà irripetibile. Mentre i canadesi Annihilator portavano alla massima esaltazione il discorso tecnico aperto dai Megadeth (‘Alice In Hell’, 1989), andava nascendo il figlio diretto del thrash, il death metal: ancora più furioso e caratterizzato da varietà e tecnica maggiori. I Death, i Morbid Angel, gli Obituary: sono i nomi e i programmi di band con i piedi immerse nella sofferenza e nella rabbia, da urlare al mondo (spesso e volentiri con un cantato growl) su uno spartito drammatico di morte e distruzione messe in musica. Sul finire degli Eighties, dopo essere sopravvisuto al punk e al glam, l’heavy metal stava andando incontro al decennio più difficile: gli anni ’90, aperti sotto il segno del grunge e del crossover, avrebbero segnato un lungo periodo di agonia. E pensare il modo stellare in cui si erano aperti: ‘Painkiller’ è il testamento dei padri fondatori Judas priest, tornati a troneggiare sull’olimpo del metallo con un album tellurico che è, da solo, la perfetta sintesi di un genere musicale, di un’ideologia di vita, la dimostrazione più elettrizzante di come si suonano le chitarre e di come una batteria può fare tremare il culo. L’ultimo sussulto dei Priest non bastò a evitare il peggio. I Metallica, proprio loro che il metal duro lo avevano fatto uscire dalla nicchia, lo affossarono con un successo commerciale di proporzioni enormi come il Black Album, un boom radiofonico che portò l’heavy metal nelle case di tutti. Identico il sentiero seguito dagli Iron Maiden (‘Fear Of The Dark’), che andarono anche incontro all’addio del vocalist Dickinson e ad un periodo di crisi nerissima. Quasi tutti i gruppi thrash sparirono dalla scena o iniziarono a produrre album patinati e radiofonici. Solo gli Slayer e i Testament sembrarono resistere, ma senza produrre lavori alla loro altezza. Death e Black erano ormai due blocchi inscalfibili e proseguirono sulla loro strada senza tentennamenti: grandi dischi e grandi band, ma la storia del metal sembrava non passare di lì. Qualcuno credette addirittura che potesse tornare in auge il fenomeno glam metal, grazie alla gloria fulminea ma travolgente di un gruppo grande e dannato come i Guns’n’Roses, che visse un periodo di massacrante splendore prima di affondare nei suoi stessi eccessi. La strada ora più luminosa sembrava quella nata in Germania negli ultimi anni degli Eighties. Se c’era stato chi aveva preso l’heavy dei Judas Priest e degli Iron Maiden portandolo all’estremizzazone urbana più grezza, c’era ora chi ne ereditava la melodia e la enfatizzava con galoppate fantasiose e piene di pathos, velocissime e tutt’altro che cupe, scandito da una doppia cassa mozzafiato. Gli Helloween e il power metal: storie e leggende, castelli e dragoni, magie e guardiani. Il power che si evolve tra ‘Walls Of Jericho’ e i due ‘Keeper of The Seven Keys’ getta le basi del filone che terrà il metal flebilmente in vita negli anni ’90. Il testimone passa dagli Helloween ai connazionali Blind Guardian, terribilmente più possenti e travolgenti con il loro epico muro del suono che giungeva direttamente dal medioevo. Tre album tellurici e poi una svolta ancor più melodica e di ambientazione fantastica, accentuata dall’introduzione di suoni e strumentazioni particolari che fanno dei Bardi tedeschi uno dei maggiori esponenti di un genere che annovera tra le sue fila anche i Gamma Ray e gli italiani Rhapsody Of Fire, col loro power barocco e rinascimentale davvero innovativo. I Guardian entrano nella leggenda col trittico ‘Somewhere far Behyond’- ‘Immaginations From The Other Sides’- ‘Nightfall On Middle Earth’. Nel frattempo erano rimasti solidamente sulla scena i True Defenders per eccellenza, i Manowar, che non sono power ma che con altri dischi eccellenti come ‘Kings Of Metal’ e ‘The Triumph Of Steel’ diedero fiato agli entusiasmi di chi ancora troppa sete di metallo puro aveva negli anni dell’avvicendamento tra gli ennesimi fenomeni di passaggio: prima il crossover, ora il nu-metal, l’impura contaminazione del Verbo con l’hip-hop e con sonorità di accordatura diversa e molto più fredda di quella tradizionale. Fortunatamente gli anni ’90 sono anche stati gli anni in cui i Dream Theater, musicisti di qualità sproporzionata, hanno definito ed evoluto il progressive metal: un genere tecnicissimo fatto di canzoni lunghissime e intricate, ricche di parti completamente diverse tra loro e capaci di andare oltre la semplice ripetitività di strofe e ritornelli. Un nome per tutti. ‘Images And Words’, capolavoro della band del super drummer Portnoy, dell’infinito singer LaBrie e del portentoso john Petrucci alla chitarra. Il prog metal ha sempre affidato a loro, e ai Queensryche, le proprie sorti. Una boccata d’ossigeno arrivò dal post-thrash moderno dei Pantera di Phil Anselmo e del grande chitarrista Dimbag Darrel, una band furiosa che nei Nineties ha tenuto in piedi il castello del metal incazzato ma non estremizzato (in pratica, del thrash). Grazie a ‘Cowboys From Hell’ , ‘Vulgar Display Of Power’ e ad altri dischi con le contropalle, i Pantera hanno goduto di pochi anni di frenesia che li hanno lanciati nelle enciclopedie del rock duro. Ma ancora una volta, soffocato dal nu metal di band come Slipknot e Linkin Park, o dalla nuova moda metalcore (figlio illegittimo del thrash, diviso tra voce growl e voce melodica emo), che impazzavano a fine anni ’90, il classic metal doveva rinascere. Ci hanno provato i Maiden, riabbracciando Dickinson e tornando a buoni livelli di dischi in studio; sembrano esserci riusciti i metalcorer Trivium, rispolverando in ‘Ascendacy’ e ‘The Crusade’ il thrash dei Metallica: improvvisamente iniziaronono a riunirsi tutte le grandi band, a fioccare i ritorni alle sonorità originarie, a riscoprire il gusto del passato: Megadeth, Testament, Metallica e compagnia organizzano un come back coi fiocchi e si riprendono la scena che è sempre stata loro di diritto. L’heavy metal è ancora qui, prepotentemente. Tutto il resto è passato: il metal non morirà MAI.

GODS OF METAL 2009

DA METALITALIA.COM. Gods Of Metal 2009, 13^ edizione, quella del tanto auspicato ritorno allo stadio di Monza, il quadrato e accogliente Brianteo. Dopo i due anni al piacevolissimo Idroscalo di Milano e l’anno scorso in quel dell’Arena Parco Nord di Bologna, nel girone infernale più torrido mai immaginato, la plebaglia metallica ha circondato di buzzo buono per due giornate di intensa musica il fresco capoluogo di provincia lombardo, per un festival che quest’anno ha rispettato tutte le attese in campo musicale e, con picchi e baratri, anche quelle più strettamente logistiche.

DAY ONE

La prima giornata dell’edizione 2009 è stata caratterizzata dalla netta predominanza del metal classico su quello estremo, per la verità assente e sostituito da un’orda di concerti hard-rock e glam che sicuramente hanno richiamato l’attenzione di frange di audience di tutte le età: davvero tanti i personaggi visti sul prato conciati in maniera oltraggiosa, un paio al limite del drag-queenismo, prodi seguaci di Motley Crue e Backyard Babies. D’altro canto, gli Heaven And Hell sono attualmente la migliore rappresentazione del metal classico per eccellenza, quindi anche per loro c’era davvero tanta gente. Tesla, Queensryche, le incognite Lita Ford e Marty Friedman, i ‘superheroes’ Edguy: band e artisti autori di performance più o meno appaganti e, per alcuni, anche sorprendenti! Sacrificati Voivod ed Extrema, in posizioni mattiniere poco consone al loro status, giusto per agevolare come al solito l’onnipresente Lauren Harris – basta!! – o per dare più visibilità di quella che meritano ai pur bravi Epica. A livello logistico, non abbiamo potuto fare a meno di notare – per averlo visto o per averlo sentito dire– come la tanto decantata presenza dei gettoni-consumazione non sia stata poi una trovata molto riuscita: tanti ragazzi si sono lamentati per code interminabili ai punti-ristoro sparsi all’interno dello stadio. E poi, altra cosuccia a dare un pochetto fastidio, la zanzarosa presenza di ceffi ‘zainati’ che tranquillamente giravano tra il pubblico a vendere birra in bottiglie di vetro! Abbiamo visto di persona la cacciata di uno di questi tizi da parte della security, ma ci chiediamo cosa servissero i controlli all’entrata e la polizia fuori dallo stadio. Ma si sa, l’Italia è questa e l'arte della scavalcata è piuttosto diffusa. Dopo i brevissimi The Rocker, costretti a ritardare di un quarto d'ora la loro performance, la prima sveglia alla già ben nutrita cornice di pubblico mattutina ci pensano a darla i padroni di casa Extrema, che col loro vigoroso power-thrash d'assalto iniziano a dare la carica ad un'audience esaltata. 'Money Talks' e 'This Toy' sono i pezzi più acclamati di una setlist composta da cinque brani, di cui l'ultimo tratto da 'Pound For Pound', la recente fatica discografica dei milanesi. Buona partenza per una prima giornata che si preannuncia calorosa! Dopo il ciclone Extrema che si è abbattuto come un'incudine sul pubblico del Gods Of Metal, i toni si smorzano con l'arrivo di Lauren Harris. La figlia d'arte di papà Steve propone uno show che non si discosta di molto rispetto alla sua ultima performance sul suolo italico. La band che l'accompagna suona indiavolata, mentre Lauren fa di tutto per aggraziarsi il favore del pubblico. Purtroppo i brani di 'Calm Before The Storm' non riescono a far presa, così come la presenza scenica della giovane singer lascia molto a desiderare. La sua voce in più momenti perde di incisività e compromette la resa dei brani. Nella mezz'ora a lei concessa, Lauren ancora una volta non convince e ci lascia sempre più perplessi sul suo futuro artistico: le corsie preferenziali di cui ha goduto e sta godendo non sopperiscono ad una maturazione musicale che è ancora lontana dallo sbocciare. Presenza importante quella dei canadesi Voivod al Gods Of Metal 2009, dopo una lunga assenza dai palchi italiani. La band, in questi giorni fuori con il nuovo 'Infini', si è mostrata in discreta forma, fornendo una prestazione in crescendo dopo i primi pezzi un po' in sordina. L'hard-rock atipico della formazione nord-americana è stato guidato da un Denis Belanger quanto mai su di giri, grottesco nelle sue pose e nella sua interpretazione, ben coadiuvato da Away alle pelli, Dan Mongraine alla chitarra e soprattutto da un redivivo Blacky al basso. Tutto sommato più che buono lo spettacolo dei Voivod, un po' penalizzati dalla posizione in scaletta, ma di certo efficaci! In conclusione non è mancata la toccante dedica allo scomparso chitarrista Denis 'Piggy' D'Amour. I Backyard Babies alzano la temperatura già bollente, vista l'ora, del Brianteo con una performance adrenalinica e ricca di attitudine glam-rock. L'apertura è affidata alla melodica 'Nomadic', ma è con pezzi come 'Brand New Hate', 'Degenerated' e 'Minus Celsius' che la band svedese dà il meglio di sé coinvolgendo la platea con salti e danze. Il sound è grezzo al punto giusto e il leader Dregen alla chitarra si dimostra animale da palco incitando continuamente il pubblico. Buona anche l'esibizione del resto della truppa, con una nota di merito per il singer Nicke Borg, anche alla chitarra, preciso quanto basta in un concerto votato al rock n' roll più sfrenato. Chiusura con applausi riservata al classico 'Dysfunctional Professional', che evidenzia le influenze punk da sempre marchio di fabbrica della band. Epica, l'ennesima sensation olandese in campo female-fronted gothic metal: sufficientemente energico lo spettacolo dei ragazzi capitanati dalla carinissima Simone Simons, per la verità poco sotto i riflettori, contate le volte che è rientrata nel backstage durante le sezioni che non prevedono la sua partecipazione. Tre quarti d'ora di discreto metal, quindi, abbondantemente derivativo – Within Temptation, Orphanage, After Forever – ma anche potente e a tratti trascinante. Si impegnano a fondo gli Epica, stupiti al solito dell'accoglienza di un pubblico tricolore abbastanza partecipante. Non sono dei fenomeni, ma un applauso se lo meritano. Sotto il caldo torrido delle 15.00, Marty Friedman e soci calcano il palco per scaldare ulteriormente gli animi. Contrariamente a quanto possano pensare gli scettici, il quartetto riesce a divertire nonostante la sua proposta sia esclusivamente strumentale. Merito soprattutto di una certa varietà delle canzoni, che non mirano soltanto a stupire il pubblico con esercizi di bravura o fredde dimostrazioni di ineccepibile tecnica. Le tracce dell'ex-chitarrista dei Megadeth infatti sono ben definite e varie, alternano momenti rock ad aperture melodiche e cadenzate, variando poi in partiture prettamente heavy o sfociando in assoli evocativi e trascinanti. A tratti, ascoltando i brani, vengono in mente certe canzoni di Steve Vai (fra i ranghi del quale, tra l'altro, ha militato anche il tatuatissimo Jeremy Colson, oggi dietro le pelli). Una conferma per chi già conosceva l'artista, e potrebbe essere stato una scoperta per chi fino ad oggi aveva escluso dai propri ascolti gli album di Marty Friedman, trattandosi di una proposta strumentale. Dopo la prova strumentale, peraltro positiva, di Marty Friedman, c'è bisogno di qualcosa di un po' più allegro e movimentato: gli Edguy in questo senso sono un gruppo di grande presa live, con parecchi pezzi molto diretti come 'Dead Or Rock', il primo che propongono in questa torrida giornata di Gods Of Metal. I cinque salgono sul palco con l'attitudine di chi sa il fatto suo, capitanati dal frontman Tobias Sammet, che però questo pomeriggio non ha fatto i conti con una forma vocale non smagliante. Tobi, infatti, corre e salta solo ad inizio show, mentre dopo 'Speedhoven' e 'Tears Of A Mandrake' inizia a faticare un pelo sulle note più alte e si concentra quindi maggiormente sulla prestazione. Il resto del gruppo è invece preciso come al solito, con un'ottima prova soprattutto della sezione ritmica. Il tempo stringe ma Tobias non rinuncia ad intrattenere il pubblico con il suo carisma prima di introdurre 'Lavatory Love Machine'. La risposta dell'audience è positiva, soprattutto sui brani più hard rock e dai ritornelli immediati come 'Superheroes' o la conclusiva 'King Of Fools'; mentre, come già constatato nella loro ultima data milanese, i vecchi cavalli di battaglia power del passato, tipo 'Babylon', non sono più attesi come un tempo. Una prova dunque tutto sommato sufficiente, ma meno incisiva rispetto a quanto visto durante il recente tour da headliner. Gli anni passano ma Lita Ford appare ancora in grande forma, non stiamo parlando dell'aspetto fisico peraltro invidiabile considerando le cinquanta primavere sulle spalle, ma della prestazione della bionda cantante statunitense che appare quanto mai vivace nell'ora a disposizione qui al Gods Of Metal. La cantante-chitarrista di origine albionica sforna una prestazione di spessore, riportando in auge le sonorità hard rock anni 80' della sua carriera solista. Pezzi immediati, dotati di refrain memorizzabili sin dal primo ascolto investono la platea che reagisce positivamente, con partecipazione alla performance della bionda Ford. Tra le canzoni più riuscite citiamo i classici 'Kiss Me Deadly' e la ballata 'If I Close My Eyes Forever' (originariamente interpretata con Ozzy Osbourne), senza dimenticare l'appeal sprigionato da 'Don't Catch Me'. Finale incandescente con un pezzo inedito che sarà presente nel nuovo album di Lita previsto per settembre. Supportata da una band di grande qualità, Lita Ford ci ha regalato un ritorno coi fiocchi, che visti i risultati ipotizziamo verrà presto bissato da un tour come protagonista. Se il concerto di Lita Ford ci ha lasciato a bocca aperta per il suo fantastico hard rock nostalgicamente ottantiano, i Queensryche sconvolgono per la loro classe sopraffina. La band di Geoff Tate è unica semplicemente per il fatto che brani vecchi vent'anni, oggi proposti in sede live sembrano ancora attuali, anzi avanti anni luce rispetto alla media della musica oggi in circolazione. 'Rage For Order' ed 'Empire' vengono saccheggiati dei loro brani migliori, eseguiti con una perizia ed un coinvolgimento che solo la band di Seattle sa mostrare. Geoff Tate è un front-man che sprigiona carisma ad ogni suo movimento, la sua voce ipnotica trasmette forti sensazioni che, tradotte in musica, arrivano dritte al cuore (e pare molto più in forma rispetto al suo precedente show a Milano). Durante la prova dei Queensryche purtroppo, il tempo realizza di essere stato fin troppo clemente, si scatena un acquazione e, non contenti, qualche lieve inconveniente tecnico fa saltare la partenza di una base pre-registrata. Il popolo metal giunto a Monza però, non si lascia intimidire, a parte qualche ombrello aperto di fretta e furia sono pochi coloro che fuggono spaventati da qualche goccia d'acqua. Come da copione, a tener banco sono i grandi classici del passato, un curriculum che ha sempre reso i Queensryche una formazione inimitabile. 'The Shadows' manda la folla in delirio totale, ma anche gli episodi più recenti come 'Sliver' vengono cantati e supportati con calore ed entusiasmo. Il tempo è sempre tiranno, per un concerto dei Queensryche, servirebbero ore e ore per presentare in sede live tutti i cavalli di battaglia degli americani, ciò che conta è che nei pochi minuti concessi (terminano infatti circa quindici minuti prima del previsto), Tate e compagni hanno fatto scintille dimostrandosi, almeno fino al loro turno, i dominatori incontrastati della giornata. Inizio col freno a mano tirato per i Tesla, i primi due pezzi, la titletrack dell'ultimo 'Forevermore' e 'I Wanna Live', risentono dell'assestamento dei suoni in regia e non rendono come dovrebbero. Un piccolo intoppo che tuttavia non intacca la performance della band statunitense in grado di dimostrare tutto il suo valore dalla terza traccia in avanti. Il quintetto di Sacramento non risparmia energie e offre un ottimo spettacolo di hard n'blues con il singer Jeff Keith sempre protagonista con la sua timbrica rauca e nasale. Buona la prestazione anche per il resto della band con lo storico drummer Troy Luccketta che non sbaglia un colpo e la copia d'asce formata dallo storico Frank Hannon e dal più giovane Dave Rude precisa come sempre ed in vena di virtuosismi come dimostra l'assolo finale con tanto di richiamo alla celebre 'We Will Rock You' dei Queen. Buono l'impatto di pezzi recenti come 'Breakin' Free' e 'In To The Now', anche se sono i classici a raccogliere i consensi maggiori. Canzoni del calibro di 'Getting Better', 'Heaven's Trail' e 'Hang Tough' mandano in visibilio la folla e allontanano forse per sempre le nubi dal Brianteo. Dopo la sempre gradita esecuzione della cover dei Five Man Electrical Band 'Signs' i Tesla prima del congedo ci regalano la sempreverde 'Cumin' Atcha Live', brano simbolo di una band sottovalutata per troppi anni che ora raccoglie finalmente i meritati consensi.

HEAVEN AND HELL. Signori, più che essere in diretta con il Gods Of Metal, qui siamo in diretta con la storia della musica. Quattro musicisti con sulle spalle quarant'anni di carriera stanno per fare il loro autorevole ingresso su un palco allestito con una scenografia suggestiva, fatta di gargoyle, sfere di cristallo e strutture da cui pende una moltitudine di catene. Quale cornice migliore per uno show suggestivo come quello che si preannuncia? Difficile immaginare un inizio migliore dell'accoppiata 'E5150'-'The Mob Rules' e in effetti Dio, Iommi, Butler e Appice danno il via al loro set proprio su queste note, incantando da subito l'audience. Dio (di nome e di fatto) parte col piede giusto e la platea accoglie il piccolo cantante con un un'ovazione. Segue 'Children Of The Sea', uno dei pezzi più attesi della serata e anche una delle punte di diamante della band. Il gruppo dimostra tutta la sua esperienza, suonando con un feeling e una maestria che ben poche altre band possono vantare. I soli di Iommi trasmettono emozioni a non finire e la coppia d'assi Butler-Appice è assolutamente impeccabile. Unico neo i suoni, con la voce di Dio che nei primi brani in più occasioni sovrasta gli strumenti e la chitarra di Iommi che a tratti pare finire un po' troppo in secondo piano, salvo ritornare in modo anche troppo invadente sui soli. Dopo 'I', arriva l'ora di testare l'efficacia in sede live di 'Bible Black', il singolo dell'ultimo 'The Devil You Know'. Il pezzo non delude le attese e con il suo taglio sinistro non sfigura assolutamente di fianco ai grandi classici del gruppo. Vinny Appice si ritaglia il suo spazio personale con un bel drum solo prima di dare il via a 'Fear', secondo estratto dall'ultimo lavoro. Si passa poi a 'Falling Off The Edge Of The World' con Dio veramente impressionante sui vocalizzi nella prima parte del brano. 'Follow The Tears' con il suo riffing cupo e pesantissimo ci riporta per l'ultima volta alla più recente release. Un sottofondo di tastiere inconfondibile ci porta a 'Die Young', brano da antologia su cui Iommi ci regala il solito eccezionale solo nella parte iniziale. La risposta del pubblico è entusiastica, ma non siamo ancora all'apice dello show, che viene raggiunto con la successiva 'Heaven And Hell'. Eseguita alla grande e accompagnata dal pubblico che ne intona il celeberrimo coro e da effetti scenografici curatissimi, lascia tutti di stucco quando il palco si illumina di rosso e delle colonne di fumo si alzano verso il cielo, lasciando intravedere sullo sfondo le fiamme proiettate sul megaschermo. Impressionante. Il tempo purtroppo stringe e 'Country Girl' viene praticamente accennata, seguita a ruota dalla conclusiva e immancabile 'Neon Knights'. Che dire, gli Heaven And Hell sono una garanzia e ancora una volta dimostrano che la classe è una qualità che solo i grandi hanno. SETLIST: E5150- The Mob Rules- Children Of The Sea- I- Bible Black- Time Machine- Drum Solo- Fear- Falling Off The Edge Of The World- Follow The Tears- Die Young- Heaven And Hell- Country Girl/Neon Knights.

MOTLEY CRUE. Sprint finale di questo primo giorno di Gods Of Metal 2009: 'Kickstart My Heart' introduce la calata dei Motley Crue sul suolo italico. Gli americani fanno scintille sul palco, Vince Neil e Nikki Sixx sono scatenati come veri animali, mentre Tommy Lee percuote la sua batteria come un indemoniato. I classici della band si susseguono uno dopo l'altro senza tregua, con il culmine raggiunto durante 'Shout At The Devil'. Mick Mars, sempre più traballante, appare concentratissimo nel suonare, a dispetto dei suoi compagni più giocherelloni. I Crue ci ricordano che hanno da poco un disco sul mercato e subito partono le note di 'Saints Of Los Angeles'. Il palco è formato da grandi lettere e numeri, mentre dietro un grosso schermo luminoso proietta dei filmati stilizzati che accompagnano le canzoni. 'Girls Girls Girls' scatena il pubblico femminile e basta un cenno del piacione Vince perchè sul palco arrivi un bel reggiseno. Il concerto dei Motley Crue non ci ha fatto rimpiangere la loro ultima performance al Gods Of Metal, l'unica critica che ci sentiamo di porre è rivolta al finale dello show riservato a 'Sweet Home', dove Tommy Lee si cimenta al piano: la canzone è sempre molto atmosferica, ma per un finale da Dei del Rock ci saremmo aspettati qualcosa di più adrenalinico!

DAY TWO

La seconda giornata del Gods Of Metal 2009, dopo l’afa asfissiante del sabato interrotta solo dall’acquazzone piovuto durante i Queensryche, è stata all’insegna del caldo torrido e morboso, ideale per un bel weekend al mare, un po’ meno per assistere ad un festival outdoor impegnativo come il GOM di quest’anno, con due palchi e solo un quarto d’ora di pausa fra un’esibizione e l’altra. Il variopinto bill, nettamente più estremo, moderno e propriamente metal rispetto a quello del giorno prima, ha attirato una dose massiccia di fan fin dalle prime ore della mattinata: dai pittoreschi glamster della cricca Motley Crue, si è passati ai tanti giovanissimi accorsi in massa per gustarsi gli Slipknot, la formazione in maschera che, a nostro avviso giustamente, si è aggiudicata l’ultimo posto in scaletta. Co-headliner doverosi i Dream Theater, con la solita iper-tecnica messa in mostra, ma certo meno adatti dei Nove dell’Iowa per chiudere con un grande spettacolo questa edizione del festival. E non ce ne vogliano i loro fedelissimi supporter. Presenze di super-lusso sono state assicurate dalle grandi performance di Down, Carcass, Mastodon e, in parte, Blind Guardian, mentre la bella Tarja, pur essendo più adatta al running order di sabato, se l’è cavata grazie alla sua formidabile presenza scenica e alla formazione d’assi che l'hanno accompagnata. Attesi e non deludenti i Napalm Death, alla prima esibizione di sempre al Gods Of Metal, una lacuna che il nostro evento-manifesto doveva per forza colmare. Fuori posto i comunque ottimi Cynic, così come gli Static-X, mentre corroborante è stata la sveglia suonataci dai The Black Dahlia Murder, posti in apertura di una cavalcata di concerti che purtroppo ha visto mancare all’ultimo i veterani britannici Saxon, non arrivati per tempo al Brianteo. Confermando gli odiosi problemucci organizzativi della prima giornata, va segnalata la grave pecca dell’esaurimento dell’acqua a metà pomeriggio, una nota stonata che deve fare riflettere: con 35 gradi di temperatura la scelta non può essere tra l’ubriacarsi o il morire di sete. Partenza ancora più al fulmicotone per la seconda giornata di Gods Of Metal 2009: affluenza maggiore rispetto a sabato e colazione adrenalinica offertaci dagli scatenati The Black Dahlia Murder, grazie al loro death-black metal parossistico con inserti groovy e assoli hard-rockeggianti. Manciata di brani per gli americani, che sotto un Sole cocente hanno travolto di furore e sudore un pubblico per niente assonnato. Un Trevor Strnad ripulito di barba e capelli, ma con la solita notevole 'panza', ha fatto scattare l'assalto metallico in auge quest'oggi. Ottimo inizio! Non sono certo gli Static X ad addormentare la giornata. Il loro nu metal, reso ancor più affilato dalle caratteristiche chitarre ultra compresse, crea notevole scompiglio sotto il palco e mantiene alta la tensione nella mezzora a disposizione. I suoni sono ben bilanciati e la band statunitense mostra una compattezza invidiabile, peraltro indispensabile per questo tipo di sonorità. Una serie di brani diretti ed incisivi pescati da tutta la discografia del gruppo, vengono eseguiti con precisione e buona resa complessiva. A scatenare maggiormente il pubblico sono tuttavia i brani del primo indimenticato debutto 'Wisconsin Death Trip', come 'I'm With Stupid' e 'Push It', quest'ultima suonata in chiusura per la gioia dei già numerosi presenti. Per i Cynic bisogna fare una considerazione obbligatoria: vederli sotto un Sole bollente ad orario di pranzo, dopo la frenesia degli Static-X e prima dei Napalm Death, non volge certo a loro favore. Il progressive-death metal molto pacato della band di Paul Masvidal ed il loro atteggiamento quasi catatonico ha un po' frenato i bollori del pubblico, infervorando solo i die-hard fan del gruppo. Niente da obiettare, come previsto, sulla qualità tecnica e professionale della performance dei Cynic, sempre perfetti ed in grado di emozionare anche con una proposta non delle più facili. Ora corriamo a vedere i Napalm! Ci pensano i 'leaders not followers' Napalm Death a rianimare la platea abbrustolita dal caldo: in quaranta minuti la band di Barney Greenway e Shane Embury annienta il pubblico con una prestazione al cardiopalma, senza nessun compromesso e di una ferocia per i grind-corers di Birmingham praticamente abituale. Le movenze di Greenway incarnano allo stato puro la musica inventata dalla formazione, schizoidi e tarantolate come al solito. Lo spettacolo è andato in un crescendo di velocità, accorciando sempre più i pezzi e riservando pure mazzate come 'Enslavement To Obliteration' e 'Scum'. Chiusura affidata alla cover dei Dead Kennedys, 'Nazi Punks Fuck Off' e alla terremotante 'Siege Of Power'. Paura e delirio a Monza! Il caldo è veramente asfissiante in questo primo pomeriggio di Monza, tocca ai Mastodon cercare di far dimenticare chi si aspettava i Saxon. Apertura un po' a singhiozzo con 'Oblivion' dove le doppie voci sono un po' incerte e il suono non proprio uniforme. Nel complesso siamo davanti a un quartetto abbastanza fermo sul palco, che pensa a suonare più che a fare spettacolo e incitare tutti, lasciando che sia la loro musica a parlare e suscitare entusiasmi. Decisamente meglio i pezzi dei precedenti lavori, specialmente quello che ormai è il cavallo di battaglia della band, stiamo parlando della terremotante 'Blood And Thunder' che infiamma il pubblico. Molto bene anche 'The Czar' tratta da 'Crack The Skye', canzone ipnotica e trascinante nonostante la sua lunga durata. Qualche inconveniente tecnico tormenta le chitarre verso la fine dello show, con il suono che va e viene, ma i nostri non si fanno spaventare e terminano l'esibizione senza battere ciglio. Con puntualità la bella Tarja irrompe sul palco del Brianteo con un grazioso body rosso in perfetta sintonia cromatica col microfono e con la scenografia alle sue spalle. La performance della cantante finlandese è incentrata sul suo debutto solista 'My Winterstorm' anche se non mancheranno accattivanti divagazioni. Le canzoni tratte dal disco solista sopraccitato per la verità non suscitano grande entusiasmo nonostante l'ottima resa vocale di Tarja ed un esecuzione pressochè impeccabile della sua band composta da musicisti navigati come Kiko Loureiro (Angra), alla chitarra, Doug Wimbish (Living Colour), al basso e Mike Terrana alla batteria, oltre a Max Lilja (Hevein) al violoncello. Ben altro responso suscitano invece le canzoni targate Nightwish. Vengono eseguite le famose 'Wishmaster' e 'Nemo' con grande trasporto della platea. Nella setlist Tarja comprende anche una versione quantomeno discutibile della celebre cover di Alice Coooper 'Poison' che dividerà i fan. Be', rispetto all'esibizione di tre anni fa, sempre al Gods Of Metal, Phil Anselmo e i suoi Down sono stati praticamente impeccabili, considerando l'imprevedibilità del comportamento dell'ex leader dei Pantera on stage. Sornione, grottesco, provocante, ma perlomeno sobrio, Anselmo ha giocherellato con la platea e con i suoi compagni di band come un gattone fa con un gomitolo di lana. Pesanti, densi e corposi come al solito, i riffoni della musica dei Down sono andati giù che è un piacere, tra una 'New Orleans Is A Dying Whore' e una 'Eyes Of The South'. Momenti clou dell'esibizione della band southern sono stati la dedica di 'Lifer' al compianto e ormai leggendario Dimebag Darrell e la conclusiva 'Bury Me In Smoke', che ha visto salire sul palco i Mastodon a concludere la setlist dei Down. Da segnalare il momento di poesia assoluta – o comicità involontaria, vedetela come volete! - nel quale Anselmo ha chiamato sul palco Fratello Metallo per un abbraccio che entrerà nella storia del Gods Of Metal e della satira religiosa. Amen.

Cè grande attesa sul parterre per i Blind Guardian, gruppo che in Italia vanta una fanbase assolutamente invidiabile. L'inizio è come di consueto affidato all'intro 'War Of Wrath' a cui segue non 'Into The Storm' bensì 'Time Stands Still (At The Iron Hill)'.Chiunque in platea conosce il brano e ne intona i cori. Lo stesso non si può dire per 'This Will Never End' e per gli altri pezzi del nuovo repertorio come 'Turn The page' e la nuovissima 'Sacred', brano scritto per il videogame 'Sacred 2'. L'incognita di un concerto dei Blind Guardian è sempre la prestazione di Hansi Kursch, che questa sera appare fortunatamente in forma (e con capelli corti) e tende ad abbassare meno del solito le parti più alte e impegnative. Quello che veramente non va è invece il suono, con qualche problema in spia per Hansi e soprattutto la ritmica di Marcus Siepen che non si sente (nel vero senso della parola), e viene coperta dalle evoluzioni soliste di Andrè Olbrich. E' veramente un peccato perchè la resa ne risente parecchio e solo i brani più diretti e conosciuti quali 'Valhalla', 'Goodbye My Friend' e 'Traveller In Time' ne escono quasi indenni. La risposta del pubblico è comunque entusiastica e tocca il massimo con la tripletta finale 'Imaginations From The Other Side', 'The Bard's Song' e 'Mirror Mirror'. Il set del bardi di Krefeld si chiude dunque tra gli applausi per una prestazione positiva e rovinata solo da un missaggio decisamente approssimativo. Carcass, signori, mito del death-grind che si riconferma tale dopo una performance assolutamente di alto livello e ben bilanciata tra vecchissimo materiale e pezzi più recenti (ovviamente non si riesce a parlare di nuova musica per la band inglese...): 'my Italian does not exist, we are Carcass, we do not play progressive-rock', queste le parole di Jeff Walker dopo 'Buried Dreams' per presentarsi ad un discreto pubblico adorante, in parte già pronto per lo spettacolo dei Dream Theater a venire. L'album 'Heartwork' è stato saccheggiato a più non posso dai Carcass, con l'esecuzione di 'This Mortal Coil' e 'Embodiment' una collegata all'altra a fare da picco dello show. 'Reek Of Putrefaction', 'Symphonies Of Sickness', 'Necroticism: Descanting The Insalubrious' e anche 'Swansong' non sono stati dimenticati, in un crescendo di pathos notevole, culminato con il commovente ingresso di Ken Owen, batterista originale del gruppo, per un breve ma applauditissimo assolo alle drums. Nulla da rimproverare ai Carcass quindi, autori del concerto migliore del Gods Of Metal, almeno per chi scrive.

DREAM THEATER. I Dream Theater sfornano la consueta performance ricca di tecnica e aggressività alla quale siamo abituati. La band americana come sempre sfodera una prestazione priva di sbavature dal punto di vista tecnico, come dimostrano l'esecuzione di pezzi oltremodo complessi e dai connotati progressive come la strumentale 'Erotomania'. Tuttavia il gruppo capitanato dal drummer Mike Portnoy regala anche una serie di canzoni più immediate e recenti che scaldano la numerosa platea. In tal senso di ottima presa risultano le riproposizioni di brani recenti quali 'Costant Motion' e 'A Rite Of Passage', in grado di dimostrare la serata di grazia del singer James La Brie. La scarna scenografia viene compensata dall'efficiente impianto luci e da una resa sonora di livello, capace di valorizzare al meglio le prodezze del quintetto americano. Il pubblico risponde in maniera positiva all'esibizione dei Dream ed in particolare l'esecuzione di 'Pull Me Under', 'Caught In A Web' e 'Voices' scatenano l'entusiasmo prima del gran finale riservato all'immortale 'Metropolis Pt.I' che chiude in grande stile un concerto pressochè impeccabile.

SLIPKNOT. Gran finale del Gods Of Metal 2009 affidato al gruppo-formicaio Slipknot, autori di una degnissima conclusione di un'edizione del festival più importante d'Italia che non ha deluso le attese, almeno dal punto di vista musicale. La band mascherata è partita in quarta con le sue atmosfere inquietanti ed il suo classico caos organizzato: '(Sic)', 'Wait And Bleed' e 'Get This' hanno fomentato fin da subito una folla forse minore rispetto a quella presente per i Dream Theater. Le movenze, i balzi, le corse dei Nove indemoniati hanno tenuto banco per tutta la durata dello show, ben guidati da un Corey Taylor quasi mai in difficoltà e ormai sicurissimo delle sue capacità. 'Before I Forget' e 'Psycho-Social' hanno creato panico, mentre le postazioni percussive hanno ondeggiato come impazzite, una delle quali è salita, scesa e ha girato in continuazione. Super-finale con i bis affidati a 'Surfacing' e 'Spit It Out', durante la quale il drumkit di Joey Jordison si è alzato, impennato di 90° e ripreso a girare. Pazzesco! Ultima nota da segnalare, perché proprio ci voleva: non sappiamo se sia stato voluto dalla band - ma pensiamo di sì - ma l'ultimissimo brano a risuonare fra gli spalti del Brianteo è stato 'Beat It' di Michael Jackson. Tributo di buon gusto.

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